Ambiguità e contraddizioni non sono certo una novità nel cinema di Pablo Larraín, uno dei registi più brillanti di questa generazione, capace di vivisezionare personaggi o contesti sociali complessi senza mai rinunciare alle sfumature morali e caratteriali. È inevitabile che anche Jackie Kennedy, sottoposta allo sguardo del regista cileno, sia oggetto della medesima indagine psico-emotiva che parte dall’individuale per giungere all’universale, abbracciando uno scenario storico più ampio: la delicatezza delle vicende private si riflette nelle tensioni della sfera pubblica, e viceversa.
Come trait d’union della narrazione, Jackie imposta una cornice dove il giornalista Theodore H. White si reca dall’ex first lady per un’intervista, pochi giorni dopo l’omicidio del Presidente John F. Kennedy a Dallas. È durante questa conversazione che la protagonista rievoca i momenti più duri della tragedia recente, focalizzandosi anche sulle conseguenze più immediate: il viaggio di ritorno a Washington, l’autopsia, l’organizzazione del funerale, le preoccupazioni economiche, i contrasti con lo staff della sicurezza e con il fratello di John, Bobby, l’amico più intimo di Jackie tra i membri della famiglia Kennedy. Il racconto è volutamente frammentario, come la memoria stessa. Larraín sposta l’attenzione da un ricordo all’altro, inanellando una catena di segmenti narrativi che completano il ritratto psicologico della donna: ciò che ne risulta è un personaggio drammaticamente solo, ma capace di sopravvivere alle nuove forme di comunicazione tra la politica e l’opinione pubblica (la televisione sempre più pressante, la messa in scena dei sentimenti, le emozioni come armi manipolatorie), sfruttandole a proprio vantaggio.
La morte improvvisa di John priva Jackie non solo di un marito per sé e di un padre per i suoi figli, ma anche di un ruolo pubblico: non è più la first lady, non ha diritto di vivere alla Casa Bianca, e deve affrontare la consapevolezza di non aver mai posseduto nulla di proprio, come dice esplicitamente al giornalista. Per quanto possa sembrare paradossale in un contesto simile, Jackie deve preoccuparsi della sua sopravvivenza e di quella dei figli, poiché la scomparsa di John apre scenari di precarietà e incertezza sul loro futuro immediato; questo però non la rende avulsa dal mondo “reale”, anzi, la rende ancor più consapevole dei suoi privilegi: «Non mi guardi così, sono la first lady» dice Jackie. «Molte donne hanno sofferto molto di più per molto meno». In tal senso, Larraín dipinge il ritratto di una donna pronta ad affrontare il mondo intero, con pochissimi amici e molti avversari, ma non priva di ombre: attenta a costruire la sua immagine pubblica, Jackie sacrifica la genuinità in favore delle apparenze, e calcola gli effetti di ogni sua singola decisione; basti pensare alla scelta di tenere indosso l’abito insanguinato dopo il ritorno da Dallas, o alle sue insistenze per seguire a piedi il feretro del marito lungo le strade di Washington, accompagnata dai figli. La performance di Natalie Portman, pur lavorando in sottrazione, è impressionante per la gamma di sfumature che riesce a imprimere sul volto del personaggio, indurendolo nella maschera di una donna ferita o sciogliendolo nell’apparente ingenuità della mogliettina esemplare, come nel servizio televisivo che apre le porte della Casa Bianca agli spettatori americani. Larraín, formidabile manipolatore d’immagini, non ha bisogno di utilizzare il filmato dell’epoca, ma lo ricostruisce con una cura certosina che ricorda il suo lavoro nel bellissimo No – I giorni dell’arcobaleno, e l’attrice è bravissima a seguirne le indicazioni per riprodurre tutta la rigidità e la prossemica del video.
La struttura non lineare e la focalizzazione sui giorni successivi all’omicidio (con poche digressioni) dimostra che il biopic funziona molto meglio quando non ha l’ambizione di raccontare una vita intera, ma isola un determinato evento per condensarvi le sfaccettature del personaggio: a questo proposito, Jackie è molto più simile a Steve Jobs che ad altri film biografici, poiché sfrutta il potere emblematico di una singola circostanza per svelare la psicologia e le reazioni emotive della protagonista. La durata essenziale – solo 90 minuti – valorizza l’intensità dell’opera in rapporto alla sua impostazione “episodica”, come se stimolasse ogni singola scena a esprimere il meglio di sé. Ma non c’è alcun bisogno di sentimenti urlati o di slanci melodrammatici: la progressione narrativa è infatti dolente, disincantata. A Larraín interessa l’immagine di una giovane donna che è già costretta a rimpiangere i suoi giorni migliori, nel ricordo nostalgico di quella Camelot dove ha vissuto felicemente per un periodo fin troppo breve, talmente limitato da impedire a suo marito di ottenere risultati significativi in campo socio-politico. È la fine di un sogno, come si evince anche dalle parole di Bobby: volevano cambiare la Storia, ma non ne hanno avuto il tempo.
Jackie è stato presentato in Concorso alla 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
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