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L’adolescenza è un’età dove ogni piccolo dramma viene amplificato a dismisura, ma al contempo si nutre di una leggerezza che trova sfogo nella complicità con gli amici, nei viaggi, negli amori acerbi e nell’autorappresentazione del sé. La nostalgia per gli anni puberali, sostanzialmente inevitabile per ogni adulto, nasce proprio da questa propensione allo svago, dalla possibilità di dedicarsi a se stessi: niente lavoro, niente bollette, niente responsabilità familiari che restringono i confini del tempo libero. L’idea stessa di avere un figlio in età liceale contraddice il nostro concetto di adolescenza (privilegiato e occidentale), dove l’irresponsabilità è giustificata – se non addirittura spronata – all’interno di un percorso formativo che richiede di “fare le proprie esperienze” prima di gettarsi nella vita adulta.
Piuma è il punto d’incontro fra queste due istanze: Ferro e Cate, in procinto di sostenere la maturità, scoprono di aspettare una bambina, ma decidono di tenerla nonostante il parere contrario dei genitori. I due teenager decidono consapevolmente di abdicare ai privilegi della pubertà per addentrarsi in un terreno spinoso, fatto di pressioni economiche, doveri e rinunce, come il desideratissimo viaggio post-esami che avevano progettato con gli amici, e che non possono fare per salvaguardare la salute di Cate. Intanto, il padre di Ferro non si capacita di quello che sta succedendo, il nonno deve fare fisioterapia con la procace Stella, mentre lo spiantato papà di Cate si barcamena tra un lavoro all’agenzia di scommesse e un’endemica incapacità di crescere. I due ragazzi sono forti, ma svariate forze esterne interverranno per destabilizzare il loro rapporto. Sono davvero pronti per avere una figlia?
Nonostante le responsabilità incombenti, i due protagonisti sono caratterizzati da una ricerca di leggerezza che si accorda con la loro età, e che si esprime nella scelta del nome per la bambina: Piuma, per l’appunto. È chiaro che il regista Roan Johnson si sente vicino ai suoi personaggi, di cui valorizza l’attitudine al gioco e all’astrazione: così si spiegano i segmenti immaginifici dove Ferro e Cate nuotano per le strade di Roma, o s’immergono nell’utero della ragazza per scoprire il sesso della bambina. In tal senso, Johnson ha sicuramente il merito di non cedere al melodramma, conservando uno spirito guizzante che emerge soprattutto dai fitti scambi verbali tra i membri della famiglia. Il caos dialogico accelera in progressione verso la catastrofe, con effetti comici molto apprezzabili e una regia nervosa, frenetica, come se subisse l’influenza emotiva dei protagonisti. La macchina da presa resta spesso in campo totale, lasciando libertà agli attori di interagire fra loro e muoversi nello spazio, senza soffocarli con il montaggio.
A tratti surreale, tendente al parossismo ma anche capace di ritirarsi in toni più pacati, Piuma mette in scena con grazia sia le dimostrazioni d’affetto sia gli inevitabili contrasti, per quanto talvolta sia un po’ frettoloso nel risolvere l’arco narrativo di alcuni personaggi (soprattutto Stella, terapista hippy che entra prepotentemente nella trama del film). Johnson adatta il tòpos delle famiglie disfunzionali – visto numerose volte nel cinema indie statunitense – al contesto italiano, e l’operazione gli riesce piuttosto bene. L’incontro fra due nuclei così instabili – cui si aggiunge un elemento di disturbo – sembra portare a una deflagrazione degli affetti, ma la restaurazione della famiglia tradizionale rassicura tutti, conservatori in primis: qualunque destino attenda Ferro e Cate, non c’è dubbio che sarà ben instradato sui binari della convenzione.
Piuma è stato presentato in Concorso alla 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
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