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Spira Mirabilis – La recensione del film di D’Anolfi e Parenti a #Venezia73

Pubblicato il 04 settembre 2016 di Lorenzo Pedrazzi

La spirale logaritmica è una spirale il cui raggio cresce ruotando, mentre disegna una curva che si avvolge intorno al centro senza mai raggiungerlo, all’infinito. Si tratta di una forma piuttosto comune in natura (pensate alle galassie a spirale, o al guscio di alcuni molluschi), e il matematico svizzero Jakob Bernoulli la definì Spira Mirabilis, ovvero “spirale meravigliosa”, titolo quantomai appropriato per un film che esplora l’enigma dell’immortalità. Un mistero irraggiungibile e inconoscibile, proprio come il centro della spirale: di conseguenza, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti adottano un’impostazione (anti)narrativa che, mentre insegue questa chimera sfuggente, riafferma con limpida consapevolezza di non poterla mai catturare.

I due cineasti non concepiscono il documentario come un genere didascalico e pedagogico, bensì come un’opportunità d’indagine dove la responsabilità di trarre un “senso” (o forse un’interpretazione) dalle immagini è tutta sulle spalle degli spettatori. Va da sé che Spira Mirabilis richiede pazienza e dedizione per essere fruito, ma le ripaga con gli interessi. Separate da alcuni intermezzi dove Marina Vlady legge L’Immortale di Jorge Luis Borges, le immagini del film ci portano a diverse latitudini del globo: osserviamo gli studi sulle meduse dello scienziato giapponese Shin Kubota, visitiamo la Veneranda Fabbrica del Duomo (già oggetto di un documentario di D’Anolfi e Parenti) e la sua produzione di statue, seguiamo il lavoro di due artigiani che “forgiano” uno strumento musicale, e riviviamo la lotta per l’indipendenza di una tribù Lakota. Ne risultano quattro ritratti di stampo diverso, ma destinati a convergere in un epilogo dove il loro rapporto con l’immortalità si palesa nella delicatezza di uno slancio poetico: per quanto illusoria (almeno nelle sue applicazioni pratiche), l’utopia immortale pulsa in ognuno di essi, proiettando le loro storie verso l’infinito.

Spira Mirabilis è un lungo esercizio di contemplazione, dove l’assorbimento graduale del contenuto visivo è indispensabile all’esegesi dell’opera. I due documentaristi nutrono un grande rispetto per ciò che osservano, e non potrebbero mai rappresentare tali soggetti in una chiave incerta o sbrigativa. Sconfinano nell’eccesso, esigono una soglia dell’attenzione molto alta, ma bisogna riconoscergli il coraggio di affrontare una materia complessa e prismatica che si allontana dai loro film precedenti (come Materia oscura), più lineari e maggiormente focalizzati sul tema di fondo.

Stavolta c’è invece un’ambizione metafisica che traspare – paradossalmente – da situazioni molto concrete, anche in termini materici: il marmo del Duomo di Milano, la terra e il fuoco dei Nativi Americani, l’acqua e il vetro dello scienziato giapponese, il metallo dell’hang (lo strumento creato dai due artigiani). È su questo pianeta che D’Anolfi e Parenti individuano tracce di meraviglia, ed è tra i loro (nostri) simili che colgono l’impulso a esplorare l’impossibile. Che sia per cullare una nuova vita, preservare le tradizioni, far evolvere la specie umana o proiettarsi verso il cielo, questa utopia non ci acceca né ci paralizza, bensì alimenta i nostri sforzi: il centro della spirale infinita è ancora lontano, ma sicuramente non smetteremo di cercarlo.

Spira Mirabilis è stato presentato in Concorso alla 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. L’uscita italiana è fissata per il 22 settembre, distribuito da I Wonder Pictures.

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