Di solito le vediamo sullo sfondo di ogni film western: sono figurine bidimensionali che assistono a un duello sul ciglio della strada, portano in camera da letto un cliente ubriaco, oppure sperano di accasarsi con l’eroe di turno per abbandonare la strada del peccato. Talvolta sono mogli fedeli, madri amorevoli, contadine, negozianti o tenutarie di bordelli, ma spesso restano ai margini della trama, esaurendo la loro “funzione” come amanti o vittime designate. Certo, esistono film western con protagoniste femminili (basti pensare al classico Johnny Guitar, al recente Meek’s Cutoff o al fumettistico Pronti a morire), ma non sono altro che eccezioni meritevoli, soprattutto rispetto al grande immaginario della mitologia western, ai suoi codici e ai suoi cliché.
Il regista olandese Martin Koolhoven sovverte questa tradizione con un film che adotta una prospettiva diversa. Merito della protagonista, Liz (Dakota Fanning), giovane madre che vive con la figlia, il marito e il figlio di quest’ultimo in un villaggio di provincia. Liz non può parlare, ma comunica con la lingua dei segni e lavora come levatrice, assistita dalla figlia che traduce i suoi gesti. Il nuovo Reverendo (Guy Pearce) nutre però uno strano interesse nei suoi confronti: è un uomo duro, fanatico e convinto che il ruolo della donna sia di completa sottomissione, come gli avrebbero insegnato le Sacre Scritture. Quando il Reverendo la colpisce negli affetti, Liz è costretta alla fuga, svelandoci gradualmente i drammi del suo passato e la sua sfida inesauribile con il Reverendo, brutale spettro dell’infanzia che torna ciclicamente nella sua vita.
Suddiviso in quattro capitoli (Apocalisse, Esodo, Genesi e Castigo), Brimstone è un’epopea sanguinaria che non manca di riferimenti gratuiti o pretestuosi, ma che riesce a conservare una mirabile coerenza lungo tutto l’arco dei suoi 148 minuti. Non è improprio definirlo un western “femminista”, poiché mette in scena le sovrastrutture culturali e religiose che partoriscono l’oppressione maschile, a cui la protagonista si ribella fin da bambina. Di fatto, il Reverendo è uno psicopatico che semina l’inferno e sfrutta la Bibbia per giustificare la sua violenza (impossibile non pensare all’Harry Powell de La morte corre sul fiume), ma Liz è una campionessa di protofemminismo che – al contrario della madre – non ha bisogno di auto-annullarsi, ma impiega tutte le risorse del suo corpo e della sua mente per sfuggire alla tirannia degli uomini. Mentre il Reverendo elimina tutte le figure maschili “sane” della sua vita, Liz deve assicurare un futuro alla figlia, all’interno di un retaggio femminile dove un folle pater familias avanza pretese di possesso su tutte le donne a lui vicine, indipendentemente dall’età e dai legami di sangue.
Non c’è spazio per mariti rispettosi o eroi salvifici, né per gli slanci di romanticismo: Koolhoven, con un misto di crudeltà e ironia, sgombra il campo da ogni ruolo maschile che possa riabilitare la categoria, e questo perché Liz deve salvarsi da sola. Brimstone è la storia di una donna che ha sempre lottato per l’autodeterminazione di sé, decidendo la sua sorte dall’inizio alla fine. L’epica del western assume quindi una dimensione molto intima, pur mantenendo un certo livello di spettacolarità visiva che si esprime al meglio nella caratterizzazione cromatico-geografica dei vari capitoli, tutti ambientati in luoghi diversi. La decostruzione del racconto (i quattro episodi non seguono un andamento cronologico lineare) giova alla suspense, e Koolhoven riesce a imbastire una narrazione trascinante che giustifica ogni singolo minuto della sua durata: ne risulta un film ricco di fascino, un po’ presuntuoso nei suoi riferimenti biblici, eppure dotato di un carisma singolare. Liz è l’eroina che riscatta decenni di personaggi femminili trascurati o discriminati nel genere western, pioniera di una rivoluzione che sarebbe esplosa soltanto nel secolo successivo. Non a caso, l’ultimo capitolo è Retribution (punizione o castigo), ma l’interpretazione di questo termine è ambigua, e di sicuro non unidirezionale: ma il giogo del patriarcato, per quanto soffocante, non può nulla contro il sacrificio definitivo.
Vi ricordo che Brimstone è stato presentato in concorso alla 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
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