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Il rapporto fra Terrence Malick e la Natura è improntato sulla contemplazione estatica, come se il regista dichiarasse ripetutamente il suo amore per una Madre che non si limita a donarci la vita, ma ci riempie di meraviglia. Questo sguardo si è fatto più esplicito a partire da The Tree of Life, e trova nel documentario Voyage of Time la sua sintesi perfetta, il culmine ideale di un processo dove Malick ci trasmette un sentimento al tempo stesso intimo e titanico: la sua gioia di esistere nel mondo.
Non è un caso che la prima parola pronunciata dalla voce di Cate Blanchett – narratrice di questa versione – sia proprio “Madre”. Malick comincia il film con le immagini dei diseredati, i reietti, i “senza madre” che vagano per le strade di una metropoli, volti e corpi dove le sovrastrutture della società civile non hanno più significato, e forse per questo accolgono pienamente la voce della Natura. Ma una Madre c’è per tutti, e il suo parto è stato quel fragoroso Big Bang che ha generato l’universo: il “viaggio del tempo” inizia da lì, con le immagini abbacinanti del cosmo che si dispiega davanti ai nostri occhi mortali, valorizzandone le dimensioni inimmaginabili. Poi c’è la nascita della Terra, il brodo primordiale, i primi microorganismi, la proliferazione di creature più complesse, i dinosauri, la loro estinzione, l’alba dell’uomo, la civiltà, la fine. Perché la vita sul nostro pianeta ha una data di scadenza, il Sole collasserà e ci porterà via con sé, ma tutto questo fa parte di un ciclo che tende all’infinito e si riverbera in tutti gli angoli dell’universo.
Voyage of Time è un documentario che sostituisce la pedagogia con la venerazione, il didascalismo con l’emozione: la storia dell’universo non viene spiegata, bensì evocata e celebrata. Il regista costruisce un percorso immaginifico dove il fruitore ha il privilegio dell’onniscienza, e assiste a un dispiegarsi di eventi epocali che influenzano l’intera storia del cosmo, dell’uomo e della biosfera terrestre. La commistione di tecniche diverse (riprese documentaristiche e naturalistiche, effetti visivi di stampo fotografico e digitale, ricostruzioni con attori) si amalgama in un racconto prismatico dove le più svariate manifestazioni della Natura deflagrano in tutta la loro vitalità. Se talvolta si ha l’impressione di assistere a un’ipnotica sequela di animazioni astratte, è perché Malick vuole sottolineare la straordinaria diversità di forme che compongono l’universo, da quelle compatte a quelle più liquide, grezze o morbide: di fatto, Voyage of Time esalta l’importanza della varietà e della biodiversità negli infiniti meccanismi della Natura, capace di forgiare configurazioni talmente difformi da far dubitare che provengano tutte dalla stessa mano.
Il lirismo del film risulta ulteriormente impreziosito dalle musiche trionfali che l’accompagnano, soprattutto nei momenti più grandiosi, avvicinandosi all’idea di opera d’arte totale. Anche qui, nonostante l’assenza di un filo narrativo (seppur rarefatto) come in The Tree of Life o To the Wonder, Malick riesce a conciliare il particolare e l’universale: si getta nelle strade per esplorare le sfaccettature della condizione umana, poi sfreccia tra le stelle o indaga l’origine della vita. Non è particolarmente interessato agli aspetti più brutali dell’esistenza, ma non si tratta di un’edulcorazione, poiché il cineasta allarga lo sguardo su una realtà più grande che, alla fine, è destinata a prevalere su tutto il resto. Il monologo di Cate Blanchett è un’invocazione a quella Madre che ha plasmato l’universo, un trascendente di cui Malick scorge le tracce in ogni elemento naturale, dai minuscoli atomi alle immense galassie. Lo stupore è costante, poco importa se l’oggetto osservato ci è familiare o totalmente estraneo: per riempirsi gli occhi di meraviglia, basta l’attitudine alla contemplazione.
Voyage of Time è stato presentato in Concorso alla 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
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