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Non sempre l’Academy premia il sogno, l’evasione, il cinema romantico. Ci sono momenti storici in cui le tensioni della contemporaneità bussano alla porta, e sono impossibili da ignorare persino nella bolla surreale degli Oscar, traboccante di dépense, inutili sfarzi e privilegi. Anche così – e non solo per la sua innegabile qualità artistica – si spiega il trionfo di Parasite in questa edizione degli Academy Awards, dove le produzioni hollywoodiane sono state surclassate dal film di Bong Joon-ho in tutte le categorie importanti, attori esclusi.
D’altra parte, una forte vena politica ha animato il cinema del 2019, con svariati autori della Settima Arte che hanno preso le parti dell’1% per raccontare il conflitto tra vincitori e vinti, sfruttatori e sfruttati, mettendo in scena un ribaltamento delle parti nella lotta di classe. Di questa tendenza, Parasite è l’opera più compiuta e rappresentativa, e la sua complessità tematico-visuale (non dimentichiamo lo straordinario lavoro sulle scenografie, paradossalmente non premiate dall’Oscar) l’ha reso il vincitore perfetto, una volta tanto.
La sua vittoria, però, non era scontata. Se tutti avrebbero scommesso sul Miglior Film Straniero, per il Miglior Film le produzioni in lingua inglese sembravano più quotate: soprattutto l’ottimo 1917 (che infatti ha vinto il Producers Guild Award, spesso un viatico per gli Oscar) e Joker, forte di un enorme successo internazionale e del Leone d’Oro a Venezia. Anche il film di Todd Phillips si contraddistingue per una forte matrice politica, ma Parasite, più arguto e meno populista, l’ha superato con pieno merito.
L’exploit di Bong Joon-ho è stato sorprendente anche nel premio per la Miglior Regia, dove molti si aspettavano la vittoria di Sam Mendes (mentre il genio di Roger Deakins, per la fotografia dello stesso 1917, è stato giustamente riconosciuto). Gli acuti di Parasite, insomma, sono state le uniche eccezioni di una cerimonia scialba, che ha assegnato premi alquanto prevedibili.
Malgrado due interpretazioni eccezionali come quelle di Adam Driver e Leonardo DiCaprio, la vittoria di Joaquin Phoenix era una scommessa sicura, ma dispiace non averlo visto trionfare negli anni passati per altri ruoli. Scontata anche la vittoria di Renée Zellweger come Attrice Protagonista: nonostante ci fossero performance forse più meritevoli (in primo luogo Saoirse Ronan per Piccole donne), un biopic come Judy ha carte facili in queste situazioni.
Sacrosanto l’Oscar a Laura Dern come Non Protagonista per Marriage Story, e prevedibile anche quello a Brad Pitt per C’era una volta a… Hollywood. Certo, Al Pacino e Joe Pesci sono di un altro livello in The Irishman, ma la performance di Pitt è indubbiamente valida (anche grazie alla scrittura di Quentin Tarantino, determinante nel caratterizzare il personaggio).
L’unica concessione alla fiaba è il premio alla Sceneggiatura Non Originale, vinto dal bravissimo Taika Waititi per Jojo Rabbit. La concorrenza di Piccole donne era molto forte: Greta Gerwig ha dimostrato ancora una volta il suo talento con una trasposizione complessa e stratificata, che avrebbe meritato l’Oscar ex aequo. Waititi, però, ha saputo appropriarsi del romanzo di Christine Leunens con grande inventiva, e la sua spiccata creatività – unita alla capacità di riconfigurare i drammi della Storia in un racconto delicato e satirico – gli ha fruttato un Oscar giustissimo.
Per il resto, nessuno spazio al sogno: nemmeno alla stupenda chimera di Tarantino. Se C’era una volta a… Hollywood ribadisce la sua convinzione che il cinema abbia il potere di cambiare il mondo e la Storia, Parasite ci ricorda invece che esiste un mondo reale, là fuori, e i suoi conflitti possono esplodere da un momento all’altro.
Persino la fabbrica dei sogni, pressata da più fronti, se n’è accorta.
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