“Non può piovere per sempre”. Questa frase la conosciamo tutti, è una delle frasi immortali del cinema, è il grande lascito emotivo de Il Corvo di Alex Proyas, uscito esattamente 30 anni fa, per forza di cose insignito del rango di film di culto per la morte del suo protagonista. Brandon Lee da 30 anni vive dentro Eric Draven, non se n’è mai andato, neppure per le nuove generazioni e che di certo neppure Bill Skarsgard riuscirà a sostituirlo, perché ci sono eroi che non muoiono mai.
Il Corvo esce in quei giorni di maggio con il mondo ancora in lacrime per la morte di Brandon Lee. Un colpo sparato da Michael Massee il 31 marzo 1993, stronca la vita di un figlio d’arte che con quel ruolo aveva avuto l’occasione che aspettava. Quella morte diventa l’ultimo mito funebre pop, per l’ultima stella cadente veramente tale del firmamento cinematografico. Bisognerà aspettare la tragica fine di Heath Ledger, che non a caso si muoverà omaggiando il Draven di Lee con il suo Joker, per conoscere qualcosa di pari potenza. Il Corvo era nato dal comune intento di James O’Barr e John Shirley di portare sul grande schermo quel personaggio dark, simbolo perfetto di quel corso grunge, post-punk, metal e goth che catturava la Generazione X e avrebbe influenzato anche quella Millennial. L’allontanamento di Shirley, sostituito da David J. Schow, fu un fattore decisivo che poi ebbe nella scelta di Proyas come regista, il trionfo di un’estetica da videoclip che fa de Il Corvo ancora oggi il motore, così come il risultato, di un rinnovamento del linguaggio e dell’estetica cinematografiche che poi Michael Bay avrebbe portato verso confini assoluti. Eric Draven e Shelly Webster vengono aggrediti da una gang in una Detroit che ci appare come era nella realtà in quegli anni: una delle fogne d’America. Lei muore in ospedale, lui viene resuscitato da un Corvo, riceve poteri soprannaturali, si incammina verso una vendetta che Proyas struttura in un viaggio funebre dove l’espressionismo tedesco si fonde con il cyberpunk, il gothic urban, il neo-noir. Il tutto condito da una delle più iconiche colonne sonore di tutti i tempi, firmata da The Cure, Nine Inch Nails, Rollins Band, Pantera, Medicine. Il che, a trent’anni di distanza, conferma che Il Corvo in realtà fu un film dentro un videoclip, un videoclip strutturato per essere un film, un caso unico nel suo genere, legato ad una volontà di ribellione tanto particolare, perché connessa ad un momento generazionale e culturale unico.
Inutile negarlo, Il Corvo è diventato tale perché di quel preciso momento, con il crollo del Muro di Berlino, la fine dei grandi ideali, si cercava un oggetto semantico che li decifrasse. Il Corvo ha un protagonista androgino, fisicamente e semanticamente staccato dal machos del decennio precedente, in lui si agitava quella diversity e quella negazione della mascolinità tossica che proprio dagli anni ’90 si sarebbe mossa sulle note dei Nirvana, dell’indie rock, di un rap che spazzò via (altro paradosso) quel rock glamour e americano simbolo del reaganismo. Brandon Lee muore e la Miramax si chiese se distribuirlo o meno quel film, era rischioso. Invece fu un successo di pubblico e critica, sancì la nascita di quel legame tra pop culture e cinema che raggiunse vette di raffinatezza durante il decennio mai più imitate in seguito. In Eric, trovò spazio tutta la speranza e assieme la disillusione di una gioventù figlia di ex 68ini, l’ultima andata in piazza per cambiare il mondo e assieme capace di rendere idolo transgenerazionale Kurt Cobain, uno che in fin dei conti cantava la rabbia malinconica che faceva muovere Eric, giustiziere in una notte perenne. Il Corvo rimane un viaggio visivo ed emotivo, non è razionale, non è la manifestazione di una grande scrittura o recitazione, ma di quanto un’immagine con un suono valga mille volte di più di ogni ricercatezza, come recentemente ha ricordato Dennis Villeneuve. Il Corvo non sarebbe mai diventato mito senza la morte di Lee, lo stesso dicasi per Gioventù Bruciata e anche per Il Cavaliere Oscuro. Sempre giovane, sempre libero, sempre bello. Per questo è imbattibile, perché nessuno può sconfiggere la morte e il mito che essa crea da secoli nel giovane che la abbraccia. In questo e nel suo legame con la subcultura giovanile, che oggi è morta, c’è il motivo del suo successo, del perché è stato un momento collettivo culturale potentissimo.
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