Road House ha già fatto parlare di sé con un bel po’ di polemiche tra la Produzione e Gyllenhaal da una parte e il regista Doug Liman dall’altra, circa la distribuzione in streaming di questa seconda volta dell’ex cowboy di Brokeback Mountain nei panni di un fighter, dopo Southpaw. Il risultato finale è la classica montagna che partorisce un topolino, un action che vorrebbe essere epico, autoironico, ma che annoia e alla fine quasi infastidisce.
Elwood Dalton (Jake Gyllenhaal) è un ex asso della UFC che naviga in brutte acque, sbarcando il lunario tra incontri clandestini e lavoretti. Modesto, distante dalla figura classica dello spaccamontagne, Dalton attira le attenzioni di Frankie (Jessica Williams), proprietaria di un Road House nelle Florida Keys che al momento se la vede brutta a causa di risse, violenze e l’assenza di un buttafuori che sappia farsi rispettare. Convinto dalla donna ad accettare l’incarico, Dalton non ci metterà molto a capire che chi rovina le serate del Road House non è una banda di malviventi qualsiasi, ma sono gli uomini Ben Brandt (Billy Magnussen), dispotico boss della criminalità, che per qualche oscuro motivo vuole sbarazzarsi del locale. Per farlo, non esiterà a servirsi dello squilibrato e pericoloso Knox (Conor McGregor), il tutto mentre Dalton cerca di capire se almeno può fidarsi di Ellie (Daniela Melchior), un medico del posto. Tra zuffe, inseguimenti, sedie in frantumi e motoscafi, il duello andrà oltre ogni limite. Per limite si intende anche quello della logica, visto che Road House, ritorno alla regia del discusso ma sicuramente non banale Doug Liman, dopo un inizio anche interessante, perde completamente la bussola e diventa una sorta di cocktail impazzito, dove vale tutto e il contrario di tutto. Scene d’azione tra il confuso e il mal impostato, effetti visivi a dir poco rivedibili, alla fin fine pare di stare in una sorta di prodotto derivato di Fast & Furious o di certi B-movies in cui si è arenata la carriera di Jason Statham che, per inciso, avrebbe avuto molto più senso di Jake Gyllenhaal nei panni del protagonista. Sì, perché un altro, anzi il principale problema di Road House, è proprio come sia il protagonista a non funzionare per niente, con quel suo stare sotto le righe che diventa mono espressività, quell’incapacità di donare carisma, personalità e credibilità a quello che dovrebbe essere un antieroe, ed invece arriva come una sorta di tizio che passa di lì per caso. Non ci siamo, soprattutto pensando a quanto Patrick Swayze era stato iconico nel 1989.
In un’era in cui i remake e i reboot continuano a spuntare come funghi, Road House appare come il classico progetto commerciale evitabilissimo. Nel film del 1989, ambientato nel Missouri, trovava spazio anche un repertorio musicale non da nulla, con i Cruzados, Jeff Healey, Bob Seger, qui non vi è traccia di alcunché di memorabile. Road House si affida molto, forse troppo, a Conor McGregor, ma The Notorious per quanto ami gigioneggiare interpretando una sorta di bullo impazzito (sostanzialmente sé stesso da qualche tempo a questa parte) non regge il confronto con il Jimmy Reno dell’originale. Lo script lascia troppo solo Gyllenhaal, non ha nessuna spalla, il personaggio della Melchior e anche della Williams sono appena abbozzati. Nell’originale un Sam Elliott d’annata fungeva da supporto a Swayze, qui non si è pensato ad un sostituto. Magnussen continua a fare il matto come ha sempre fatto, Joaquim de Almeida è mal utilizzato, entrambi fanno rimpiangere il fu Ben Gazzara ogni minuto che passa. Road House ha uno script a dir poco senza alcuna originalità, privo di un minimo di creatività, sa solo mischiare i classici cliché del genere, non riesce neppure a sfruttare l’ambientazione della Florida in modo soddisfacente. A rendere il tutto ancora più tedioso, il fatto che il protagonista si esibisca nel solito repertorio di invincibile armato di battutine e mosse alla Jackie Chan, senza che vi si creda per un solo instante. L’uso di una CGI invasiva e sgraziata rende il tutto ancora più artificioso, privo di brio, di una benché minima capacità di regalare sorprese. Il finale è tra i più privi di senso e di eleganza, con coreografie dei combattimenti che oltre ad essere mal girate, risultano anche limitate nel loro andamento, a dir poco telefonato. Doug Liman aveva cominciato bene, poi si è tagliato le gambe da solo, è andato verso un calo vistoso, ma certo almeno Anthony Bagarozzi e Chuck Mondry gli avessero dato qualcosa di più nella sceneggiatura, forse si sarebbe potuto salvare il film. Così invece si capisce anche perché Amazon abbia deciso di buttare tutto nel calderone dello streaming. Un film così in sala sarebbe stato a dir poco un disastro.
Michael B. Jordan grande protagonista di un mix eccezionale di horror, fantasy, musical e dramma, che morde senza fermarsi
Michael B. Jordan grande protagonista di un mix eccezionale di horror, fantasy, musical e dramma, che morde senza fermarsi