La Nuova Zelanda è davvero lontana, sia fisicamente che in termini culturali, e sono pochissime le opere e gli artisti capaci di emergere dal mercato interno per affacciarsi su quello internazionale. Certo, ci sono alcune straordinarie eccezioni (Peter Jackson su tutti), ma, in linea generale, i film e i registi di successo del cinema neozelandese, di solito, sono popolari solo nel loro paese di nascita.
E questo sembrava il destino che sarebbe toccato anche a Taika Waititi, specie dopo la tiepida accoglienza internazionale ricevuta dal suo primo film (Eagle vs Shark, 2007) e dopo il sostanziale disinteresse ricevuto dalle platee mondiali per la sua seconda pellicola (Boy, 2010), che pure aveva ottenuto uno straordinario successo in patria. Tutto cambia però con la sua terza opera, scritta e diretta assieme a Jemaine Clement, What We Do in the Shadows (film del 2014 arrivato in Italia con il titolo Vita da vampiro), che porta alla ribalta il regista neozelandese e lo proietta verso il giro che conta di Hollywood.
Perché? Non solo perché What We Do in the Shadows è un film bellissimo (ma erano belli anche i primi due di Waititi), ma anche per il perfetto equilibrio delle sue parti: è un film comico che fa molto ridere ma è anche un vero film horror con momenti di reale violenza e raccapriccio, è una commedia sentimentale ma è anche un dramma, è un “documentario” ma è anche purissima finzione narrativa. La cosa che gli somiglia di più è quel capolavoro di Dance of the Vampires (Per favore, non mordermi sul collo!) di Roman Polanski, giusto per farvi capire a che livelli di eccellenza siamo. E se ne accorgono tutti.
In particolare se ne accorge Kevin Feige, che contatta Waititi e Clement per proporgli una collaborazione. Clement non può (è impegnato a sviluppare la serie di What We Do in the Shadows) mentre Waititi accetta l’invito. Si prende giusto il tempo di finire un ultimo film personale (il bizzarro Hunt for the Wilderpeople, pellicola del 2016 arrivata da noi con il titolo Selvaggi in Fuga) e poi entra nella Casa delle Idee. Il perché la Marvel abbia scelto proprio Waititi non è difficile da capire: il talento neozelandese ha molti punti in comune con un’altra scommessa molto azzardata che ha fatto Kevin Feige poco tempo prima, quella su James Gunn. Scommessa stravinta, per la cronaca. Proprio come Gunn, Waititi ha molto talento, sa coniugare commedia e dramma, sa far ridere e piangere e ha un’impronta pazza e personale. Come bonus, a differenza di Gunn, quando era giovane non ha mai insultato nessuno su Twitter. Insomma, sembra l’uomo perfetto per tentare quella manovra “alla Jim Shooter” che Kevin Feige ha in mente da qualche tempo per provare a salvare il personaggio di Thor.
Aspettate, lo so che vi state perdendo con questa roba da Marvel Zombie.
Chi è Jim Shooter? È uno degli storici Editor-in-Chief (in sostanza, il capo) della Marvel che, negli anni Ottanta, sviluppò una azzardata strategia per rilanciare le testate in odore di chiusura della sua casa editrice. In sostanza, il suo piano consisteva nell’affidare questi titoli ad autori giovani e rischiosi, lasciandogli carta bianca sul piano creativo. Se funzionava, funzionava alla grande e Shooter si ritrovava per le mani un autore caldo e un personaggio rigenerato. Se non funzionava, poco male: tanto quella testata sarebbe stata chiusa comunque. Per capirci, Jim Shooter è l’uomo che permise a Frank Miller di diventare Frank Miller e che, nel farlo, salvò anche dall’oblio il personaggio di Daredevil, trasformandolo in uno degli eroi di punta della Marvel.
Ecco, Kevin Feige, nel chiamare Taika Waititi, aveva in mente lo stesso piano: affidare Thor, un personaggio che nel MCU cinematografico non aveva ancora trovato una sua piena identità e che veniva da due film personali poco riusciti, a un giovane talento un poco pazzo, lasciandogli la piena libertà di reinventarlo. Inutile dire che Waititi non chiedeva di meglio.
E veniamo a Thor: Ragnarok, uno dei film più apparentemente divisivi del MCU, capace di suscitare un amore incondizionato o un odio sconfinato nei fan. Dico “apparentemente” perché non solo la pellicola è andata benone al botteghino, ma anche perché gode di un lusinghiero 93% di approvazione su Rotten Tomatoes (a fronte di 439 recensioni). Diciamo che quelli che lo hanno odiato sono pochi ma molto, molto, rumorosi e parecchio motivati nel gettargli fango addosso. Ma perché Thor: Ragnarok è stato capace di farsi odiare così tanto? Perché è una pellicola che prende Thor e, seguendo quanto già cominciato da Whedon, lo trasforma in un idiota completo e lo cala in un film comico, camp, con tanti rimandi alla cultura queer e che fa del folle Flash Gordon di Mike Hodges la sua guida spirituale. Insomma, è un film che non si prende sul serio e che, nella sua furia iconoclasta e demenziale, brucia anche qualche bell’arco narrativo della Marvel che, probabilmente, avrebbe meritato più spazio e un approccio diverso (penso, in particolare, ai due cicli narrativi di Planet Hulk e World War Hulk). Ma, se lo chiedete a me, è un film riuscito in senso assoluto, anche se lontano dallo splendido equilibrio che Taika Waititi era riuscito a trovare con What We Do in the Shadows. Equilibrio che comunque continua ancora a sfuggire al regista anche nella pellicola seguente, quel Jojo Rabbit che tenta un equilibrismo alla Chaplin ma che non riesce a convincere del tutto la critica e il pubblico.
E, finalmente, siamo arrivati al tempo presente, al quarto film dedicato a Thor per i Marvel Studios e alla seconda pellicola asgardiana per il regista neozelandese, quel Thor: Love and Thunder appena approdato anche sui nostri schermi.
La facciamo lunga o corta?
Facciamola corta: Thor: Love and Thunder è come Thor: Ragnarok ma di più.
È molto più comico (a tratti, irresistibilmente comico), è molto più scemo e demenziale (nulla è risparmiato dalla dissacrazione), è molto più spettacolare (e gli effetti sono belli, cosa non così scontata quando si parla di MCU), è molto più colorato (credo che il dipartimento artistico del film abbia inventato almeno un paio di colori nuovi perché quelli conosciuti non bastavano), è ancora più stroboscopico (se avete l’epilessia statene alla larga, sul serio), è molto più anni Ottanta (ancora di più?!). E, sopratutto, è molto più Flash Gordon ma con i Guns N’ Roses al posto dei Queen. Che poi, Waititi vorrebbe fare il remake di quel monumento camp che è il Flash Gordon di Dino De Laurentis, ma non è chiaro perché, visto che ne ha già girati due.
E, ovviamente, è molto più irritante per quella fetta di pubblico che da un film del MCU cerca il dramma e l’epica. E non che non ci siano, eh? La storia di Gorr e quella di Jane Foster sono assolutamente drammatiche visto che uno è un padre che ha perso la figlia e, con essa, la fede in qualsiasi dio, e l’altra una donna di scienza, malata di un cancro allo stadio terminale, che proprio nella fede trova la sua ultima speranza. Ma come prendere davvero a cuore queste storie quando sullo schermo ci sono un paio di capre urlanti, un’ascia gelosa (migliore gag ricorrente del film a mani basse) e Sweet Child ‘O Mine sparata a tutto volume? Quanto all’epica… Thor combatte Zeus e ok, ma Zeus ha un gonnellino svolazzante e parla in greco.
Quindi, possiamo dire che sì Thor: Love and Thunder non è solo più grande di Thor: Ragnarok nei suoi pregi, ma anche nei difetti, e che forse un arco narrativo come quello immaginato da Jason Aaron per Jane Foster avrebbe meritato un trattamento più profondo e meno scherzoso, anche in relazione alla materia trattata.
In conclusione questo Thor: Love and Thunder è uno spasso, ma non è niente più di quello.
Il complesso equilibrio tra divertimento e approfondimento, commedia e dramma, che Taika Waititi aveva trovato così felicemente in What We Do in the Shadows, continua a mancare nelle opere successive del regista neozelandese (forse per l’assenza di Jemaine Clement?) e questo Love and Thunder non farà cambiare di una virgola l’opinione di quelli che già hanno odiato Ragnarok. Fortunatamente, a me Ragnarok è piaciuto e ho amato moltissimo questo suo pazzo seguito.
Prima di chiudere, due note: il cast è davvero tutto molto in forma, con particolare nota di merito per Christian Bale, ma, mi spiace davvero dirlo, la pellicola è letteralmente funestata dal doppiaggio italiano, che fa apparire proprio Bale del tutto inadeguato e rende Russell Crowe assolutamente indigeribile. Vedetelo in originale se potete.