Ultimamente parliamo spesso di come la Marvel stia faticando a trovare una nuova direzione per il suo universo cinematografico dopo aver azzeccato il gran finale della Infinity Saga. Quando una cosa ti riesce particolarmente bene, è davvero difficile superarla. Lo capì a proprie spese la Fox quando, a metà anni ’80, mise in cantiere un sequel di Aliens – Scontro finale.
Forse non c’è bisogno di dirlo, ma Aliens di James Cameron è uno dei più grandi sequel mai realizzati. Probabilmente non raggiunge le vette di Alien, in termini di originalità, e di certo non gioca nello stesso campionato di “raffinato cinema d’autore mescolato con il genere”, ma è indubbio che Aliens fece quello che tutti i sequel dovrebbero per lo meno tentare di fare: trovare una direzione fresca e originale per non ripetere quanto già fatto, evitando di misurarsi con il primo film e trovando una sua voce. Risultato? Anziché essere paragonato con Alien, Aliens è ricordato come uno dei più grandi film d’azione mai fatti. Che fare, dunque, per portare avanti la storia?
Un bel problema. Soprattutto se consideriamo che, per una volta, il sottotitolo italiano (Scontro finale) era risultato più che mai azzeccato: Aliens aveva davvero il sapore di una conclusione della saga, con tanto di lieto fine: Ripley aveva sconfitto i suoi demoni, quelli che non la lasciavano dormire la notte, trovando una famiglia nel mezzo del caos. Non è un caso che, in anni recenti, Neill Blomkamp abbia incluso Newt e Hicks nel pitch del suo “vero sequel”, che avrebbe ignorato Alien 3 e Alien – La clonazione. Quei due personaggi erano davvero amati e l’alchimia con Ripley era palpabile.
Ma torniamo nel quartier generale della Fox, circa 1987. L’imperativo è chiaro: la saga di Alien deve proseguire. Meno chiaro è il “come” e, negli anni successivi, diverse strade sarebbero state tentate senza successo. La prima idea è lungimirante: realizzare un sequel in due parti (oggi è normale, all’epoca meno), da girarsi back-to-back, incentrato su una metafora della Guerra Fredda e magari diretto da Ridley Scott. Scott è tentato, ma la sua fitta agenda non glielo permette. Nel film, la Weyland–Yutani Corporation, l’odiosa “Compagnia” che tenta sempre di accaparrarsi gli Xenomorfi per la propria divisione “armi biologiche”, sarebbe stata ai ferri corti con una sorta di aggressiva e militaresca utopia socialista nello spazio (la Union of Progressive Peoples). William Gibson, uno dei padri del Cyberpunk letterario, viene incaricato di scrivere la sceneggiatura. La prima parte è incentrata su Hicks, che si risveglia dal criosonno nella stazione spaziale / centro commerciale di Anchorpoint, dove la Weyland-Yutani sperimenta sugli Xenomorfi. Ripley in questo momento è in coma. Per la fine del film, Anchorpoint e la vicina stazione della Union of Progressive Peoples vengono invase dai fastidiosi parassiti alieni e Hicks deve guidare un esercito composto dai superstiti per fermarli. Nel secondo film sarebbe tornata Ripley, per il gran finale.
I produttori però non sono entusiasti della sceneggiatura di Gibson. David Giler lo definisce “uno script perfettamente eseguito ma non così interessante”, nel senso che non riesce a differenziarsi in maniera convincente dai precedenti capitoli. Complice anche il fatto che la sceneggiatura non piace nemmeno al regista scelto da Fox, Renny Harlin, il progetto cambia faccia. La Guerra Fredda è ormai finita e la metafora al centro della versione di Gibson non interessa più tanto. Si tentano altre strade, con stesure di Eric Red (The Hitcher, Il buio si avvicina), David Twohy (Pitch Black) e Vincent Ward (Navigator – Un’odissea nel tempo). Quest’ultimo si inventa un pianeta artificiale fatto di legno e abitato da un gruppo di monaci che, dopo lo schianto della navicella di Ripley, si ritrovano ad affrontare lo Xenomorfo. Vi ricorda qualcosa? Esatto: questa è la base del successivo script di Walter Hill, David Giler e Larry Ferguson, nel quale i monaci vengono sostituiti con dei carcerati e il pianeta di legno con un pianeta prigione dal look industriale (idea presa dalla stesura di Twohy, che, nel frattempo, se ne era andato sbattendo la porta). Il plot resta più o meno lo stesso, ma Ward, che si era rifiutato di apportare i cambiamenti richiesti, viene licenziato. A questo punto la Fox chiama David Fincher, all’epoca esordiente al cinema, alla regia. Fincher rielabora la sceneggiatura con Rex Pickett e tutto è pronto. Circa.
In realtà, Fincher arriva sul set dopo che sono già stati spesi 7 milioni di dollari, per colpa di tutta questa incertezza. La sceneggiatura non è nemmeno completa, ma bisogna girare: i set sono stati costruiti (viene da pensare che, a questo punto, fosse la sceneggiatura a dover essere adattata ai set e non viceversa), i teatri di posa prenotati. La macchina non si può fermare. Fincher fa quello che può con quello che ha. Si gira in Inghilterra, ai celebri Pinewood Studios. Il papà dello Xenomorfo, H.R. Giger ha fornito alcuni design per il nuovo mostro, una creatura quadrupede e più agile in quanto nata da un cane. Tom Woodruff Jr. e Alec Gillis sostituiscono Stan Winston agli effetti speciali, e fanno un ottimo lavoro. Ma, ironia della sorte, se l’idea era trovare qualcosa di realmente originale per cambiare rotta alla saga ancora una volta, la missione non può che dirsi fallita.
Alien 3 esce in USA il 22 maggio 1992, rispettando l’intervallo di sei anni tra un film e l’altro. Appare subito evidente che non è un film degno dei predecessori. Laddove Aliens aveva trovato il modo di dire qualcosa di nuovo e inaspettato, Alien 3 fa esattamente l’errore che Cameron aveva evitato: torna alle origini, proponendo di nuovo la formula “slasher” del singolo alieno che fa fuori una crew un uomo alla volta, con Ripley a guidare la caccia allo Xenomorfo. A salvare il film sono principalmente l’ambientazione – non originale come quella immaginata da Vincent Ward, ma abbastanza da essere fedele al feeling della saga senza ricalcare le precedenti – il look di Ripley, l’idea dello Xenomorfo ferino e un cast di ottimi caratteristi (Charles S. Dutton, Peter Postlethwaite, Brian Glover e un Charles Dance pre-Game of Thrones), oltre alla trovata perfetta di concludere l’arco di Ripley con un sacrificio per impedire che la regina da lei covata possa cadere nelle mani della Compagnia (rappresentata da Lance Henriksen nei panni del creatore di Bishop, altra bella trovata). Vero, il finale assomiglia un po’ troppo a quello di Terminator 2, ma va detto che fu una coincidenza.
La cosa che più ha infastidito i fan della saga è l’aver iniziato il film con Hicks e Newt già morti nei loro criotubi. Rivista oggi, è una scelta punk per come spunta in faccia alla comfort zone del pubblico, ricordando a tutti che la saga di Alien parla di come lo spazio sia “malattia e pericolo, nell’oscurità e nel silenzio”, per dirla alla McCoy di Star Trek. Un luogo inospitale e ostile, pieno di mostri e cose oscure. Ripley è sempre stata sola e ha sempre dovuto contare solo su se stessa per sopravvivere, e Alien 3 non fa eccezione in questo. Sigourney Weaver lo sapeva bene, e infatti fu lei stessa a imporsi affinché Ripley morisse alla fine del film, nonostante lo studio stesse vagliando un finale alternativo in cui la protagonista sarebbe sopravvissuta.
In fondo, Alien 3 non è niente male. È un buon film, che ha solo avuto la sfortuna di uscire dopo due capolavori. E che sicuramente è stato penalizzato dalla mancanza di uno script finito e dalle ingerenze di uno studio comprensibilmente nervoso. La cosa è più che mai evidente vedendo il cosiddetto “Assembly Cut”, distribuito per la prima volta nel cofanetto DVD Alien Quadrilogy e poi completato per il cofanetto Blu-Ray. Con ben 37 minuti di scene inedite, questa è da considerarsi la versione definitiva del film, anche se non montata da Fincher (che comunque ha dato la sua benedizione). L’Assembly Cut è un film molto diverso: lo Xenomorfo nasce da un vitello anziché da un cane (unica idea che forse è inferiore alla versione cinematografica, anche se la scena della nascita dell’alieno è molto bella), ma, soprattutto, l’alieno viene a un certo punto catturato ed è successivamente liberato da Golic (Paul McGann), diventato una specie di suo discepolo invasato. Un film più ricco e corposo, pieno di momenti intimi tra i personaggi e molto più soddisfacente. Se questa versione fosse uscita al cinema, forse Alien 3 avrebbe una reputazione migliore oggi.
La versione cinematografica ebbe invece un destino meno lieto, anche se non fallimentare: in USA venne considerato un flop, avendo incassato 55,5 milioni di dollari (praticamente il suo budget). Fu salvato dalla performance estera, che gli permise di raggiungere un totale di 159,8 milioni. Abbastanza da spingere Fox a mettere in cantiere un ulteriore sequel, Alien – La clonazione, i cui salti mortali per riportare in scena la defunta Ripley sono passati alla storia. Ma di questo ne riparleremo tra cinque anni.