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Greed isn’t good: la recensione di Wonder Woman 1984

Pubblicato il 12 febbraio 2021 di Marco Triolo

Forma e contenuto sono perfettamente allineati in Wonder Woman 1984, un film che, sembra ormai banale dirlo ma è così, è concepito per l’esperienza in sala e invece dovrà essere visto in streaming. Dalla fotografia (di Matthew Jensen) alle scenografie, la messa in scena è complessa e colorata e dona profondità al mondo del film. Wonder Woman 1984, a parte alcune sequenze di effetti visivi non proprio riuscitissime, è in generale la proverbiale gioia per gli occhi.

Non poteva essere altrimenti per un film che arriva sulla scia del successo del primo capitolo e della moda anni ’80 che, negli ultimi anni, ha imperversato al cinema e in televisione. Ma se in un prodotto come Stranger Things il gusto retrò sembra a tratti forzato, costruito a tavolino, e va a cozzare con elementi decisamente più smaliziati e moderni (come i mostri in CGI), in Wonder Woman 1984 risulta molto più naturale. Un matrimonio di forma e contenuto, come si diceva prima, che è la qualità più interessante del film.

Perché Wonder Woman 1984 è un film profondamente anni ’80, non solamente nella messa in scena, ma anche nei temi e nella storia. È un film che qualcuno potrebbe definire “vecchio”, in un certo senso: il villain sembra uscito da un film di Superman di Richard Lester, ad esempio. Non è un alieno, un mostro, un tiranno, ma un imprenditore petrolifero. C’è il cattivo A, il Maxwell Lord di Pedro Pascal, e il cattivo B, la Barbara Minerva / Cheetah di una divertitissima Kristen Wiig. Cattivo A e cattivo B sono legati, ma le loro storie procedono in parallelo fino all’inevitabile alleanza contro il buono. Patty Jenkins recupera persino cliché superati – e fortemente anni ’80 – come quello bella donna schifata da tutti perché porta gli occhiali e non sa camminare sui tacchi.

Maxwell Lord è una via di mezzo tra una riflessione su Trump e la sua visione dell’America e il “greed is good” di Gordon Gekko, un bignami dell’avidità dei più frenetici e sregolati Eighties reaganiani.

La cosa più vicina a un vecchio film di Superman

Da tutti questi ingredienti esce la cosa più vicina ai vecchi film di Superman che si sia vista da parecchio tempo. È un bene? Forse non del tutto, o forse dipende se quel tipo di trattamento dei supereroi vi piace o meno. Se siete tra quelli che pensano che i supereroi dovrebbero essere sempre naif, al centro di trame facili per ragazzini, campioni di una morale semplice e cristallina, allora questo è il film per voi. Se invece amate alla follia la complessità morale dei film Marvel, siete nel posto sbagliato.

Perché quello che si dice in giro è vero: la trama, che vede Maxwell Lord trasformarsi letteralmente in una pietra dei desideri e spingere l’intera popolazione mondiale a esprimerne uno, spedendo il pianeta sull’orlo della Terza Guerra Mondiale, è piena di controsensi e incongruenze. Patty Jenkins, stavolta anche sceneggiatrice insieme a Geoff Johns e Dave Callaham, è ben disposta a sacrificare la coerenza del plot quando le occorre per fare emergere i temi.

Non esistono scorciatoie

Quali temi? Beh, il principale, messo nero su bianco in un intro ambientato a Themiscyra, è che non ci possono essere scorciatoie nella vita, e che nulla di buono nasce da una bugia. Il paragone con gli ultimi anni di storia americana è evidentissimo: anche qui c’è un imbonitore che promette grandi cose tralasciando il costo e la ricaduta che quelle promesse avranno. Gli anni ’80 sono l’ambientazione ideale per questo tipo di storia, anche se è impossibile non pensare che siano stati scelti anche per evitare di citare altri supereroi e scavalcare con un singolo grande balzo (trainati dal lazo della verità) tutti i problemi di continuity del cosmo DC.

Ma in Wonder Woman 1984 si parla anche di andare avanti, come nella migliore tradizione americana. Di lasciarsi alle spalle il passato e pensare al futuro. Nel film, Diana è ancora profondamente in fissa con Steve Trevor, nonostante siano passati 70 anni dalla sua morte. Una trovata che rischia di minare il messaggio femminista del film (che si concentra molto sul punto di vista femminile in un’epoca in cui il male gaze era ai massimi storici). Ma, anche qui, a Jenkins interessa poco che non sia coerente col tutto: è più importante che serva come mezzo per dare una morale alla fine.

Prendere o lasciare

Wonder Woman 1984 procede quasi in maniera episodica, con tanti siparietti a volte slegati. Ha un problema di ritmo in diversi punti: Diana appare in costume all’inizio del film e poi resta in abiti civili fino a metà. È troppo lungo: due ore e mezza sono eccessive per una storia così contenuta.

Eppure ha un sapore da kolossal d’altri tempi che in parte conquista. Ha un climax proprio da film anni ’80, con scene di massa, caos, e l’eroe che deve intervenire per salvare tutti. Ma soprattutto è interpretato da un cast che se la spassa come a ricreazione. Kristen Wiig sa essere incredibilmente magnetica. Chris Pine è il perfetto contrappunto alla posata serietà della protagonista, con il suo essere un pesce fuor d’acqua curioso, le sue tute e i suoi marsupi. Pedro Pascal si divora tutto con la foga di chi non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. Paradossalmente, nel mezzo di tutto questo è proprio Gal Gadot a perderci. Ma accade spesso che la figura del supereroe integerrimo sia meno interessante di quelle dei comprimari. O meglio, accadeva nei film anni’80. E Wonder Woman 1984, ripetetelo con me, è un film anni ’80. Prendere o lasciare.

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