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Anche se a una prima occhiata potrebbe non sembrare così evidente, Numero 5, il protagonista di Corto Circuito, è un figlio di R2-D2. Sono i primi anni 80 e tutti, negli USA come nel resto del pianeta, amano i robot, grazie all’astrodroide di Star Wars e ai suoi fischi carichi di sdegno, sarcasmo, saggezza. I produttori David Foster e Lawrence Turman decidono così di improntare un’intera pellicola sulle reazioni di alcuni esseri umani che si trovano davanti un robot senziente. Il progetto presenta però numerose complessità.
Tanto per iniziare, bisogna rendere quel robot sufficientemente vivo per far sì che il pubblico possa temere per la sua vita, appunto, anche se è solo un ammasso di metallo. In secondo luogo, quell’ammasso di metallo dev’essere visivamente diverso da quanto già visto altrove. In generale, non solo in una galassia lontana lontana.
Sul primo punto devono scervellarsi i due sceneggiatori ingaggiati dalla Tristar, la coppia formata da Steven Seth Wilson e Brent Maddock, in seguito autori della saga di Tremors. Wilson pensa dapprima a un cyborg con il cervello umano, ma a Maddock l’idea sembra troppo macabra: dev’essere un film per famiglie, Corto Circuito (al corpo di metallo per tenere insieme dei resti umani avrebbe pensato di lì a pochissimo Paul Verhoeven con un certo poliziotto).
Ma, per tornare al cruccio iniziale, come rendi vivo un robot? I due pensano dapprima a un intervento degli alieni, degli alieni di metallo organico. Poi studiano altre soluzioni più complesse, finché non capiscono che devono accontentarsi di un caro, vecchio fulmine che cambia le carte in tavola senza troppi complimenti o spiegoni. Perché così la storia sarà più semplice e il pubblico non si soffermerà sul cosa ha portato in vita Numero 5, ma su quello che succede dopo.
E ok, è un malfunzionamento causato da un fulmine a trasformare il robot militare Numero 5 in un essere senziente, sottraendolo a una grigia esistenza da ultimi scampoli di Guerra Fredda. Un robot che, secondo i piani di Wilson e Maddock, verrà animato in stop motion. Ma c’è una persona che non è d’accordo. Si chiama John Badham, tutti lo conoscono soprattutto come il regista de La febbre del sabato sera, e ha appena completato un altro film a base di giovani attori, fantascienza e militari, Wargames – Giochi di guerra.
Badham non vuole che quello che è a tutti gli effetti il protagonista del suo film sia sottratto alla sua regia e affidato completamente alla post produzione. Vuole un qualcosa con cui gli attori in carne e ossa possano interagire sul set, non uno spazio lasciato vuoto nella speranza che venga riempito in modo convincente da una miniatura in stop motion.
Si pensa allora a un pupazzo meccanico e ne vengono realizzate alla fine quindici versioni (e cinque teste) diverse da impiegare nel film. Alcune radiocomandate, altre mosse da un numero spropositato di animatori (spesso anche oltre una dozzina di persone) per le inquadrature ravvicinate. Una delle quindici versioni prende fuoco proprio per un corto circuito, viene riparata e diventa alla fine quella più affidabile di tutte. Che ci crediate o meno, era il pupazzo numero 5, e la coincidenza è talmente incredibile da affascinare/terrorizzare la troupe durante le riprese.
A disegnare il robot è Syd Mead, il concept artist futurista noto per il suo lavoro su capolavori sci-fi come Blade Runner, Tron, Aliens – Scontro finale. L’uomo secondo cui la fantascienza è solo “la realtà in anticipo”. Lui ed Eric Allard, il supervisore di tutta la faccenda robotica, si ispirano alla fine per l’aspetto di Numero 5 a un robot che suona la tastiera, con due grandi occhi tondi, visto in un fiera dei robot in Giappone. Per ricordare le origini militari del robot, Syd Mead gli piazza dei cingoli al posto delle gambe e un laser sulla schiena, che ricordi i fucili portati in spalla dai soldati.Alla fine è prevedibilmente Numero 5 a fagocitare buona parte del budget della pellicola.
Accanto al robot, davanti alla macchina da presa di John Badham c’è Ally Sheedy, membro del Brat Pack (Breakfast Club e St. Elmo’s Fire) già apparsa in WarGames di Badham e da lui fortemente voluta in questo film. E qui paradossalmente costretta a fare da spalla, pur nel suo primo ruolo da protagonista. La Sheedy si sente un po’ persa nel recitare accanto a un oggetto inanimato, anche se nelle interviste dell’epoca dichiara di aver adorato ogni singola scena in cui era da sola con Numero 5. Pure se il robot spesso non funziona come dovrebbe e sono costretti a rigirare quelle scene un numero infinito di volte. La sola scena del ballo porta via due settimane di prove.
A progettare Numero 5 e i suoi fratelli, nel film, è Newton, lo scienziato interpretato da Steve Guttenberg, il Carey Mahoney di Scuola di polizia. Il suo assistente, Ben, genererà una coda di polemiche, perché si tratta di un personaggio indiano affidato a un attore caucasico, Fisher Stevens. La storia è buffa, perché il personaggio di Ben era stato già assegnato a Stevens quando Badham decide che l’assistente dovrà essere indiano e non bianco. Al posto di Stevens viene ingaggiato così Bronson Pinchot… che di famiglia è mezzo italoamericano e mezzo russo. Don’t ask. Ma poi Pinchot molla, per girare la sitcom Balki e Larry – Due perfetti americani (Perfect Strangers. In cui ovviamente interpreta un greco) e torna Stevens, che per prepararsi alla parte va in India a studiare lingua e costumi.
Dopo l’uscita del film succederanno due cose. La prima è che in India inizierà a girare la voce secondo cui Ben è interpretato dall’attore di Bollywood Javed Jaffrey, effettivamente molto somigliante a Stevens (Jaffrey dovrà ripetere in tutta una serie di interviste che no, non è mai stato sul set di Corto Circuito. Parola). La seconda è che molti indiani si diranno offesi per il personaggio macchietta di Ben; Badham darà loro degli esagerati e dirà che ormai “non si può più scherzare su niente”.
Badham infila nella pellicola un paio di autocitazioni – la scena del ballo che omaggia il suo La febbre del sabato sera con Travolta è la più evidente, ma c’è anche una strizzata d’occhio al suo Tuono blu – e si trova costretto a tagliare alcune scene romantiche tra Stephanie Speck (Ally Sheedy) e Numero 5, perché nelle proiezioni test di un primo montaggio il pubblico fischia quando Stephany abbraccia e bacia il robot.
Corto Circuito esce in sala il 9 maggio del 1986 (in Italia il 20 dicembre) e va subito forte al botteghino. Chiude la prima settimana di programmazione al primo posto e in totale incassa nei soli USA oltre 40 milioni di dollari, a fronte di un budget stimato di 9-10. Ne viene messo così in cantiere, a stretto giro, un seguito. In Corto Circuito 2 (luglio ’88) tornano in pista Numero 5, che dalla fine del primo film si fa chiamare Johnny 5, e il Ben di Fisher Stevens. Ma non Guttenberg, che non apprezza l’idea del progetto ancora senza copione, per far cassa il prima possibile, che gli viene presentato, e Ally Sheedy. A cui fanno girare solo dieci secondi di audio, per tagliare sui costi. Il seguito floppa, incassando la metà del primo.
Ma poi vent’anni dopo la Disney ha riportato sulla scena Johnny 5 ribattezzandolo WALL-E e… wait.