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La locuzione enfant prodige è una di quelle espressioni inflazionate che si logorano al ritmo delirante dei titoli giornalistici, ma nel caso di Damien Chazelle è quantomeno giustificata dai fatti. D’altra parte, stiamo parlando del più giovane cineasta a cui sia stato assegnato l’Oscar per la Miglior Regia, vinto a soli 32 anni per La La Land: se non è prodigioso, poco ci manca.
Non c’è da stupirsi che Hollywood si sia subito innamorata di lui, soprattutto se consideriamo i suoi folgoranti primi passi tra immagini e musica, una commistione che il cinema americano “romantico” ha sempre adorato. Queste passioni lo accompagnano sin dall’infanzia trascorsa a Princeton, sede della prestigiosa università dove insegna suo padre, un noto professore d’informatica; sua madre, invece, è docente di storia medievale presso il College of New Jersey, segno che il piccolo Damien cresce in un contesto prettamente accademico. Il cinema è la sua passione principale, ma il fascino della musica lo trascina inizialmente in un’altra direzione: durante gli anni del liceo, alla Princeton High School, l’adolescente Chazelle cerca di affermarsi come batterista jazz sotto lo sguardo severo di un insegnante di musica, da cui ovviamente trarrà ispirazione per il personaggio di Terence Fletcher in Whiplash. Il futuro cineasta suona nella banda scolastica, ed è anche piuttosto bravo, ma sente di non avere il talento per diventare un grande batterista, quindi abbandona le sue ambizioni musicali e torna al suo primo amore. S’iscrive ad Harvard – proseguendo l’alta tradizione accademica della famiglia – e studia cinema presso il Dipartimento di Studi Visivi e Ambientali, dove condivide una stanza con Justin Hurwitz: è l’avvio di un sodalizio amicale e professionale che comincia nella band indie-rock Chester French, e poi sfocia nel primo lungometraggio di Chazelle, concepito per la sua tesi di laurea.
Il film in questione è Guy and Madeline on a Park Bench, che debutta al Tribeca Film Festival nel 2009, per poi trovare una distribuzione limitata l’anno successivo. Damien – anche sceneggiatore, operatore e co-montatore – lo gira in un ruvido bianco e nero a 16 mm, con attori non professionisti che agevolano la naturalezza delle interpretazioni, ma nella sua mente ci sono i grandi musical hollywoodiani che lo hanno fatto innamorare della Settima Arte. Non solo, però: il neo-regista è cresciuto anche con il cinema francese (la cultura transalpina fa parte del suo retaggio familiare), e questa contaminazione dà luogo a un’opera davvero peculiare, dove convivono due anime molto eterogenee ma non disarmoniche. La storia del triangolo amoroso fra il trombettista Guy, l’affascinante Elena e l’introversa Madeline è narrata attraverso uno stile intimista che sfiora il documentario, figlio di Morris Engel e John Cassavetes, ma le coreografie di tip tap e le canzoni rievocano l’epoca felice dei musical americani, come quel Cappello a cilindro che rientra fra i suoi cult personali. Il risultato stupisce la critica d’oltreoceano, e dimostra che Chazelle cerca fin dall’inizio una via alternativa per il musical contemporaneo, più vicina alla sensibilità europea (si pensi allo splendido Once di tre anni prima) che a quella delle major statunitensi, anche per l’occhio rivolto a Godard e agli altri maestri della Nouvelle Vague.
A questo punto, Damien fa quello che ci si aspetta da ogni regista americano in erba: si trasferisce a Los Angeles, centro gravitazionale del cinema statunitense (e anche mondiale, in termini di grandi produzioni). L’idea è di trovare investitori per il progetto di La La Land, ma nel frattempo il giovane cineasta lavora come “sceneggiatore su commissione”, e scrive sia l’horror The Last Exorcism – Liberaci dal male (con il regista Ed Gass-Donnelly) sia il thriller Grand Piano, prima che la Bad Robot gli affidi il copione di 10 Cloverfield Lane. Chazelle riscrive lo spec-script di Josh Campbell e Matt Stuecken con l’intenzione di dirigere il film, ma rinuncia alla regia quando trova i finanziamenti per un altro progetto: si tratta di Whiplash, che diventerà il suo primo successo.
A questo punto è necessario fare un piccolo passo indietro. Com’è stato già accennato all’inizio, Damien durante il liceo suona in una jazz band molto competitiva, esperienza che lui stesso ricorda come “spaventosa” anche a causa di un maestro particolarmente esigente. Ebbene, mentre si trova a Los Angeles e cerca qualche produttore interessato a La La Land, il neo-regista vive un momento di frustrazione che decide di sfogare in una sceneggiatura: è così che nasce Whiplash (2014), sorta di “auto-terapia” di fronte alle insidie del mestiere cinematografico. Rievocando lo stress del suo apprendistato musicale, Chazelle racconta la storia del giovane batterista Andrew Neiman (Miles Teller) e del suo esasperato rapporto con il direttore d’orchestra Terence Fletcher (J.K. Simmons), uomo durissimo che sottopone i musicisti a prove massacranti, persino violente. In tal modo, Chazelle ribalta la concezione romantica della musica che Hollywood coltiva fin dai suoi albori, e mette in scena un poema di lacrime e sangue dove la prostrazione e la fatica – non l’evasione o l’utopia del linguaggio universale – caratterizzano l’attività del musicista. L’esposizione insistita dei fluidi corporei (lacrime, sangue, sudore e saliva) rafforza questa visione disillusa e concreta dell’arte, avvicinandola ai sacrifici psicofisici dello sport.
Insomma, Chazelle riesce a produrre il film dopo averlo inizialmente trasformato in cortometraggio per attrarre gli investitori, e affida i brani musicali all’amico Hurwitz. I pezzi jazz dialogano splendidamente con le immagini grazie al lavoro magistrale di Tom Cross in sede di montaggio, e l’Academy se ne accorge: candidato a cinque Oscar, ne vince tre per il Miglior Missaggio Sonoro, il Miglior Attore Non Protagonista (J.K. Simmons) e naturalmente il Miglior Montaggio. Whiplash incassa 49 milioni di dollari contro un budget di 3.3 milioni, raccogliendo inoltre l’elogio unanime della critica. A soli 29 anni, Damien è già uno dei nomi più caldi di Hollywood.
Ora la situazione si è ribaltata: gli studios sono ben felici di finanziare il suo progetto successivo, alle condizioni che Chazelle ritiene necessarie. Il cineasta aveva sempre concepito La La Land come un musical jazz, genere praticamente estinto, ma prima del suo exploit con Whiplash nessuno era disposto a credere in un film del genere. Uno studio gli aveva persino offerto 1 milione di dollari per produrlo, a patto però che il protagonista diventasse un musicista rock, che venisse semplificato il numero di apertura e che l’epilogo fosse più lieto: insomma, è normale che Chazelle si sentisse frustrato nei suoi primi anni losangelini. Adesso, però, può contare sul supporto di Summit Entertainment, Black Label Media e Marc Platt, mentre Patrick Wachsberger di Lionsgate gli consiglia addirittura di aumentare il budget per soddisfare le ambizioni del film. I grandi musical, si sa, non sono economici.
La La Land (2016) è incentrato sul rapporto fra l’aspirante attrice Mia Dolan (Emma Stone) e il jazzista Sebastian Wilder (Ryan Gosling), sullo sfondo di una Los Angeles che sa essere tanto spietata quanto generosa con i creativi che tentano di conquistarla. Nell’idea di Damien, il film dev’essere un omaggio a tutti quei sognatori che portano il proprio bagaglio di speranze nella Città degli Angeli, mediando fra l’utopia del successo e la conservazione della propria umanità. Il sopracitato numero d’apertura dimostra che il regista è sempre più consapevole dei suoi mezzi: costruisce inquadrature suggestive, gestisce un gran numero di comparse e muove la macchina da presa in fluidi piani sequenza, valorizzando la qualità delle performance e la visione d’insieme. La sua Los Angeles è una megalopoli che trova un’identità precisa nei suoi grattacieli, nella sua estensione sconfinata e persino nel traffico, mentre gli spettri di vecchie star vagano tra murales e locandine vetuste, flebili tracce di un passato che l’autore ha ben presente. C’è molto musical classico in La La Land (il Vincente Minnelli di Un americano a Parigi e Spettacolo di varietà, il meraviglioso Cantando sotto la pioggia della coppia Kelly/Donen), ma Chazelle pensa soprattutto al suo film preferito, Les Parapluies de Cherbourg di Jacques Demy, e anche a Les Demoiselles de Rochefort. Ancora una volta, il retaggio americano e quello francese trovano in lui una sintesi inattesa, tanto ricca d’amore quanto di disillusione. Damien è infatti consapevole che l’ingenuità dei vecchi musical romantici èsiairripetibile, perché diverso è il clima in cui furono prodotti. Così, La La Land si concede l’amarezza del disincanto, fedele a una generazione ondivaga che ha perso gran parte delle sue certezze: se la comunicazione verbale genera delusioni e fraintendimenti, l’idillio fra innamorati vive quasi esclusivamente nella frenesia dionisiaca dei balli e delle canzoni. Il memorabile what if dell’epilogo trasfigura la realtà in sogno, aprendo scorci su quel mondo ideale che vorremmo tanto costruire, ma che spesso stride con la durezza dei fatti concreti.
Il successo è immediato: La La Land apre la 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e viene accolto da un’ovazione, proiettandosi verso la successiva stagione dei premi. Agli Oscar, il film eguaglia il record assoluto di candidature (14, come Eva contro Eva e Titanic), ottenendo sei statuette: Miglior Regista, Migliore Attrice Protagonista (Emma Stone), Migliore Fotografia, Migliore Colonna Sonora Originale (Justin Hurwitx), Miglior Canzone Originale (City of Stars) e Migliori Scenografie; viene annunciato anche come Miglior Film dopo un clamoroso scambio di buste, ma il vero vincitore è Moonlight. Chazelle, però, non ha nulla di cui lamentarsi: è il più giovane vincitore dell’Oscar per la Miglior Regia, e inoltre La La Land incassa ben 446.1 milioni di dollari in tutto il mondo, contro 30 milioni di budget. Ormai, nell’attuale empireo di Hollywood c’è un posto anche per lui.
Finora tutti i suoi film hanno lavorato sul rapporto tra immagini e musica, attingendo alla sua passione per il jazz e alle sue esperienze personali, dal punto di vista sia umano sia artistico. È forse per questo che, quando viene annunciata la sua regia successiva, alcuni restano spiazzati: Damien accetta infatti di dirigere First Man – Il primo uomo per conto di Universal e Dreamworks, adattando il libro First Man: The Life of Neil A. Armstrong di James R. Hansen. Il progetto circola fra le mura degli studios dal 2003, quando Clint Eastwood e la Warner comprarono i diritti dell’opera, ma ora i tempi sembrano maturi: il cinquantenario dello sbarco sulla Luna si avvicina, e Chazelle è determinato a omaggiare non solo Neil Armstrong, ma tutti i protagonisti di quella storica avventura. In effetti, dopo averne affidato il copione a Josh Singer, il giovane cineasta sceglie un’impronta da mission movie, più che da biopic tradizionale. Ovviamente Neil Armstrong (Ryan Gosling) è al centro della storia, ma la narrazione si focalizza sugli eventi che hanno portato alla conquista della Luna, senza tralasciare le diramazioni psico-emotive dell’impresa: dalla morte della figlioletta Karen al rapporto con la moglie Janet, il film non nasconde le asprezza caratteriali di Armstrong, ritraendolo come un uomo che interiorizza il dolore in tutte le sue manifestazioni, algido e preciso, eppure dotato di un’intimità profonda e segreta che trova sfogo nelle ultime inquadrature.
Se nei suoi film precedenti aveva tentato di dare vita alle immagini con la musica (e viceversa), stavolta Chazelle sfrutta il cinema per avvicinare l’esperienza diretta di chi compie l’impresa e quella indiretta di chi la fruisce. Che si tratti di collaudare un velivolo sperimentale o di fendere l’atmosfera terrestre per raggiungere lo spazio, il regista compie scelte formali molto oculate: poche inquadrature esterne o d’insieme, macchina da presa incollata al volto del protagonista, e molte soggettive che obbligano il pubblico a calarsi nel suo sguardo, togliendo quei punti di riferimento che servirebbero a orientarsi. Il senso di ansia e claustrofobia che se ne ricava – quasi estenuante in alcune sequenze – dà corpo ai sacrifici psico-fisici cui si sottopongono questi esploratori del cosmo, necessari per spingere l’umanità ben oltre l’orizzonte. Dopo i sogni individuali di La La Land, un sogno collettivo che ambisce a emanciparci come “specie”.
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First Man è il film con cui Damien Chazelle si afferma definitivamente come regista hollywoodiano completo, in grado di gestire anche un materiale apparentemente lontano dalle sue inclinazioni. Questo “mestiere” gli permetterà di adeguarsi a contesti e generi diversi, ma ciò non significa che si allontanerà dal suo amore per la musica: dopo quattro lungometraggi, Chazelle debutterà presto sul piccolo schermo con i primi due episodi di The Eddy, serie tv musicale prodotta da Netflix che racconterà la storia di un club e della sua band; poi sarà il turno di un’altra serie tv, stavolta prodotta da Apple, di cui scriverà e dirigerà ogni singolo episodio, da autore totale. Impegnatissimo e poliedrico, un vero enfant prodige.
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