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Il primo uomo, uno sguardo oltre l’orizzonte: la recensione da #Venezia75

Pubblicato il 29 agosto 2018 di Lorenzo Pedrazzi

Le imprese memorabili si addicono particolarmente al grande schermo, e non solo per le potenzialità spettacolari. In virtù dei suoi numerosi mezzi espressivi, il cinema riesce a materializzare un’utopia: mettere in comunicazione l’esperienza diretta di chi compie l’impresa, e quella indiretta di chi la fruisce, stabilendo un tramite fra due poli teoricamente inconciliabili. In genere, delle grandi conquiste si tramandano solo le glorie imperiture, non le sofferenze, gli sforzi e i sacrifici per realizzarle; il cinema, però, interviene proprio su questo punto, impiegando le sue risorse tecnico-artistiche per calare l’ignaro spettatore al fianco dell’eroe, e garantire una vicinanza altrimenti impossibile.

Fin dall’incipit de Il primo uomo, appare chiaro che l’intenzione di Damien Chazelle fosse proprio questa. Neil Armstrong sta collaudando un jet X-15 per la Edwards Air Force Base, ma prende eccessivamente quota e comincia a rimbalzare sull’atmosfera: è una scena tesissima, dove Chazelle resta incollato al pilota e al suo velivolo, senza mai mostrarci un’inquadratura d’insieme che abbracci l’aereo dall’esterno. È una dichiarazione programmatica, che anticipa e sintetizza il suo approccio al film. Più che un biopic, Il primo uomo è infatti il racconto di un evento straordinario, a cui Chazelle si avvicina per gradi. Ovviamente, però, tutto parte dalla figura di Armstrong: l’uomo che fece l’impresa, e che sulla Luna trascinò tutto il peso delle sue responsabilità professionali e familiari. La morte della figlioletta Karen riecheggia lungo tutto l’arco del suo viaggio, ed è un rumore di fondo che lo accompagna a ogni passo, innescando il conflitto fra il padre e l’astronauta, il marito e l’ingegnere, l’essere umano e l’avventuriero. Il film non arretra di fronte all’asprezza del suo carattere, all’apparente freddezza con cui reagisce alle esigenze di sua moglie, dei suoi figli e dell’opinione pubblica. In effetti, Chazelle non cerca gli eccessi melodrammatici di altri mission movie hollywoodiani (Apollo 13 in primis), ma asciuga la narrazione e valorizza i silenzi del protagonista, cui Ryan Gosling dona una maschera costantemente imperturbabile, capace di interiorizzare il dolore in tutte le sue manifestazioni. “Se l’umanità del futuro sarà un esercito disciplinato di creature asettiche, cervelli elettronici, Neil Armstrong è già il futuro” scriveva Oriana Fallaci a proposito del suo incontro con l’astronauta, stupendosi della razionalità calcolatrice che governava ogni sua azione. Il punto, però, è che il compito di Armstrong e dei suoi colleghi non è mai stato quello di fantasticare sulle stelle (materia di scrittori e poeti, se mai), bensì portarci lassù, garantendo a tutti noi un nuovo orizzonte da sognare. Chazelle mette in scena tale aspetto del pilota, ma anche la quieta umanità della sua vita privata, la lama sottile del lutto che affonda nelle sue azioni. L’interpretazione precisa e raffinata di Claire Foy – nel ruolo della moglie Janet – si misura con queste istanze, rispondendo colpo su colpo attraverso il linguaggio degli occhi.

La missione è ciò che accade intorno, e la sceneggiatura di Josh Singer trova il giusto equilibrio fra segmenti familiari e professionali, fra il lato intimista e quello “mitico”. A tal proposito, Il primo uomo dà il meglio di sé quando lavora sulla suspense, che resta altissima pur conoscendo l’esito degli eventi: isolandoci nella cabina di pilotaggio insieme ad Armstrong, il film ci obbliga a vivere l’impresa dalla sua prospettiva, con effetti ansiogeni e claustrofobici che magnetizzano l’attenzione. La danza delle navicelle a gravità zero cita chiaramente 2001: Odissea nello spazio, ma è nelle soggettive che Chazelle ottiene i risultati migliori, quando i punti di vista del pubblico e del personaggio coincidono. Come lui, non abbiamo riferimenti visivi cui appigliarci (se non la strumentazione e le minuscole finestrelle), mentre la cinepresa segue i capricci vertiginosi dei velivoli. Le inquadrature mantengono un taglio quasi documentaristico, cercando l’identificazione più che lo spettacolo puro. Con la sua regia matura ed essenziale, Chazelle compie la transizione definitiva a cineasta di gran mestiere, capace di gestire un materiale ben lontano dai suoi primi tre lungometraggi.

La catarsi finale sfiora vertici toccanti, ma soprattutto dà corpo alle ambizioni di un’umanità che non può smettere di guardare oltre l’orizzonte, alla ricerca di un altro mondo da cui osservare il nostro con occhi diversi. Il primo uomo celebra la nobiltà di questi intenti, e i sacrifici personali di chi ha lavorato per concretizzarli.

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