Siamo agli sgoccioli: domani diremo bye bye al 2014 e come sempre i redattori di Screenweek.it vogliono salutare a dovere l’anno cinematografico uscente. Dopo le Top 10 di Leotruman, Filippo, Valentina e Marlen, eccovi la mia personale classifica.
A favore di questo 2014 posso dire di aver trovato difficoltà a restringere la lista a 10 titoli, lasciando fuori anche film molto amati come American Hustle – L’apparenza inganna e altri che pur trovando sopravvalutati hanno di sicuro lasciato impresso il loro marchio sull’annata, come The Wolf of Wall Street. In ogni caso, questo è il risultato della scrematura, partendo dal basso. Enjoy!
10 – GONE GIRL
Come spesso accade le uscite di dicembre regalano grandi soddisfazioni e questo è sicuramente il caso dell’ottimo thriller di David Fincher. Non solo il regista sfrutta sapientemente una storia già di per sé ben congegnata, ma con una brevissima sequenza a inizio e fine film riesce a sintetizzare uno dei concetti più affascinanti del cinema e dell’arte in generale: l’ingannevolezza dello sguardo e l’importanza del punto di vista nella percezione del senso, tanto di un’immagine quanto di una persona. Il tutto con una piccola incursione nel macabro e una tensione tenuta sempre perfettamente alle stelle. Davvero una gran chiusura d’anno e di classifica.
Come già avvenuto con il primo Cavaliere Oscuro, Nolan si conferma grande interprete del suo tempo, capace di trasfigurare un sentire comune in una storia dal sapore epico. Tali sono infatti i personaggi di Interstellar, che al di là dei trip (letteralmente) spaziali, hanno tutta la forza di eroi che si battono contro la rassegnazione e l’idea che l’umanità abbia già raggiunto la sua ultima frontiera. Ok Kubrick, ma questo film ci sembra molto più degno delle grandi epopee western e del cinema di Ford, da cui anche la sua pecca, cioè una retorica dell’affermazione volontaristica che si contiene con difficoltà. Comunque un film memorabile.
Riconoscimento della Giuria di Cannes a parte, questa ci sembra senza dubbio la miglior prova italiana dell’anno. Un film che partendo da una storia particolarissima, ambientata in un microcosmo rurale sconosciuto a tanti, riesce a restituire perfettamente il sapore di un’epoca – gli anni ’90 – e l’aria respirata da una generazione che proprio in quel periodo stava assistendo, senza accorgersene minimamente, a un cambio radicale nella cultura del Paese e nel suo sistema di valori. Un ritratto privo di moralismo e intriso di nostalgici malesseri. Bravissima Alice Rohrwacher.
“Si alza il vento. Bisogna tentar di vivere”. Sembra un paradosso ma è con questa esortazione alla vita che Hayao Miyazaki saluta il suo pubblico e ci lascia “orfani” di uno dei più eleganti e visionari maestri del cinema di animazione. Uno sguardo in avanti che passa però per una visione retrospettiva sulla Storia del Giappone che ricorda le grandi epopee come Guerra e Pace. Un film che nasce per essere un classico sin dal primo minuto sullo schermo, e come tale lo inseriamo non solo nella lista del 2014 ma in quella dei film della vita, per quanto molto diverso e più ostico rispetto ad altri capolavori del Maestro.
Ecco, questi sono gli antipodi dell’animazione: tutto 3D, tutti colori ipersaturi, musica sparatissima, gag a profusione e ritmi incalzanti. Ma tutto si tiene e funziona perfettamente, perché? Perché è un calderone erratico di tutto ciò che le generazioni lego, vecchie e nuove, riconoscono e amano, con sovrabbondanza di citazioni e rimasticazioni, il tutto in chiave ironica ma con un sottofondo serio. Una nuova eleganza che non passa più per la misura e la morigeratezza ma, al contrario, per il saper tenere insieme i pezzi di un mondo dalle infinite possibili forme. Proprio come i mattoncini Lego. Promosso a pieni voti.
Se ci fosse bisogno di un altro motivo per adorarlo oltre alla compresenza di fratelli Coen, Oscar Isaac, la voce di Marcus Mumford e ottima musica folk, ricordiamo che il film della premiata coppia registica rivela verso il finale una struttura narrativa che è un colpo al cuore. Se per tutto il film il protagonista sembra solo una sorniona e svogliata canaglia (come il gatto che porta in braccio), a un certo punto la sua storia diventa la parabola negativa dell’impossibilità di redenzione e dell’inutilità di ogni movimento, ogni tentativo di riscatto personale. Meravigliosamente angosciante e per un certo verso perfino commovente.
Finalmente un cinema di impegno, o ancora meglio di impeto civile, che però non si lega all’ideologia o alla politica ma semplicemente all’empatia umana. Fossimo in un’altra epoca storica forse quest’opera dei Dardenne non avrebbe meritato tanta attenzione, per quanto ben diretta e improntata a una giustissima e spartana sobrietà di trama e di stile. Ma visti i tempi in cui ci troviamo si può fregiare anche del raro pregio della necessità, fondamentale per passare il suo messaggio di denuncia nei confronti della disumanizzazione dei rapporti di lavoro e di vicinato. Senza dimenticare la performance di una Marion Cotillard in ottima forma.
Meravigliose interpretazioni e atmosfere ironicamente malinconiche per un piccolo grande film, capace di raccontare con tenerezza sia l’amore “eneico” di un figlio per il padre, sia le rovine e la desolazione esistenziale lasciate dalla crisi dell’American Dream. Particolarmente azzeccata anche la scelta del bianco e nero, che in realtà è più che altro grigio: uno spesso strato di polvere da cui viene coperto tutto, luoghi, persone e relazioni umane, e che comunque nessuno dei personaggi riesce mai a scrollarsi di dosso. Un tocco di amarezza non scontato, utile a smorzare il sentimentalismo e a rendere più dura una piccola grande storia di provincia che, sotto l’aspetto country e sempliciotto, nasconde un’ispirazione epica nel vero senso del termine. Bella e inaspettata prova registica di Alexander Payne.
Un altro attestato di come il cinema d’autore non sia per forza in contrasto con il pop, anzi, di come probabilmente sarà la cifra dell’opera dei filmmaker emergenti. Cineasti cresciuti con la tv, con i videoclip e un’invasione di tormentoni sfornati dalla boy o girl band di turno. E che giustamente non se ne vergognano, così come non se ne vergogna Xavier Dolan, che a circa 25 anni ha già all’attivo più film di quanti se ne contino sulle dita di una mano e non si fa problemi a mettere in colonna sonora le hit degli anni ’90 e 2000, né di sbattere in faccia allo spettatore cambi di formato o altri pesanti interventi di regia. E tanti saluti al cinema super riflessivo e rarefatto dei papà (o di mammà, giustamente).
Controverso e imperfetto, non è sicuramente il migliore di Lars von Trier. Eppure vanta uno stile visivo, una complessità e una sfacciataggine che come al solito meritano il podio. Sì, è volutamente provocatorio. Sì, è intrinsecamente misogino. Sì, è fatto per disgustare e arrabbiare (soprattutto la versione director’s cut). Ma nessuno lo fa così tanto e così bene come Lars, bisogna farsene una ragione (e, personalmente, inchinarsi) in attesa della prossima calcolata follia.
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