Cinema Recensioni

Drop mostra tutti i limiti dei thriller high concept

Un thriller degli anni '90 aggiornato alla tecnologia odierna, ingabbiato in schematismi da high concept.

Pubblicato il 15 aprile 2025 di Lorenzo Pedrazzi

L’idea alla base di Drop – Accetta o rifiuta può essere riassunta in una singola domanda: “E se una donna venisse ricattata tramite AirDrop durante il primo appuntamento?” Come per tutti i film high concept, anche qui troviamo una premessa elementare, facile da spiegare in pochi secondi, accompagnata da personaggi schematici, poche o inesistenti evoluzioni caratteriali, una rigida struttura narrativa e una predilezione per l’intrattenimento puro. Ovviamente questo approccio è stato declinato in modalità più complesse dai grandi registi di Hollywood (pensiamo a Steven Spielberg, che lo ha perfezionato ne Lo squalo), mentre il cinema degli anni Ottanta ne ha valorizzato gli aspetti più grezzi e faciloni, soprattutto con i blockbuster di Don Simpson e Jerry Bruckheimer. Dal canto suo, Blumhouse ha individuato nell’high concept la classica gallina dalle uova d’oro, che permette allo studio losangelino di invadere il mercato con horror e thriller a basso costo, sempre basati su idee facilmente commerciabili.

Il caso di Drop è ancora più significativo, non soltanto per l’immediatezza del soggetto: nel film di Christopher Landon c’è infatti anche un lato nostalgico, indiretto ma percepibile, che rimanda a un certo cinema degli anni Novanta e ai suoi piccoli thriller domestici. Meghann Fahy interpreta Violet Gates, psicoterapeuta che lavora da casa, ed è specializzata in vittime di abusi. Lei stessa è sopravvissuta alle violenze del defunto marito, che per poco non la uccise insieme al figlioletto Toby (Jacob Robinson). A qualche anno di distanza, Violet decide di tornare a uscire con qualcuno, e fissa un appuntamento con Henry Campbell (Brandon Sklenar), fotografo che ha conosciuto su un’app di dating: lascia quindi Toby – non senza patemi – a casa con sua sorella Jen (Violett Beane), e si reca al lussuoso ristorante Palate per incontrare Henry. Durante la cena, però, il suo smartphone comincia a ricevere degli strani meme da un utente sconosciuto. All’inizio sembra uno scherzo, salvo poi rivelarsi una minaccia terrificante: se Violet non obbedirà agli ordini, Toby e Jen verranno uccisi.

Com’è facile immaginare, il corpo centrale del film è quello che regge meglio la tensione, dipanandosi in una rete di sguardi e sospetti tra gli avventori del ristorante. La sceneggiatura di Jillian Jacobs e Chris Roach si diverte a mettere la protagonista sempre più in difficoltà, non solo sul piano logistico (come farà a rubare la scheda SD di Henry per distruggerla?), ma soprattutto in termini morali: è disposta a uccidere qualcuno per salvare suo figlio e sua sorella? E quali conseguenze avranno i suoi tentativi di ribellione? L’assurdo giochino, godibile solo a tratti, s’inceppa non appena intuiamo il mistero, e capiamo che la storia è davvero esile, poco interessante. Di fatto, i moventi dell’ignoto persecutore hanno poca importanza: sono solo un pretesto per innescare l’azione. Gli stessi meme – idea grottesca ma un po’ giovanilista – si esauriscono dopo l’impatto iniziale, e quello che resta sono dei banali messaggi di testo. A tal proposito, Drop usa il digitale per farli apparire come enormi scritte che circondano Violet, insieme agli schermi delle telecamere di sicurezza da cui sorveglia l’interno di casa sua: soluzione che, per quanto già vista, rende bene l’invadenza di queste tecnologie nella nostra quotidianità.

Il punto, però, è che la meccanica dell’high concept ha il fiato cortissimo, e finisce solo per imbrigliare il film nelle sue banalità. Prevedibili (quando non apertamente stucchevoli) sono gli scambi tra Violet e Henry, come pure i confronti con Jen, dove le caratterizzazioni stereotipate rivelano tutti i loro limiti. Meghann Fahy se la cava anche bene, e fa da contraltare all’interpretazione soporifera di Brandon Sklenar, ma non basta: ogni tentativo di attribuire spessore al suo personaggio, soprattutto attraverso le esperienze passate, diviene solo un orpello senza reali sfaccettature. Anzi, il tema degli abusi domestici sa proprio di sfruttamento gratuito, e la spettacolarizzazione del dramma (evidente nei flashback col marito) è francamente irresponsabile. Più che valorizzare un tema sensibile, finisce solo per strumentalizzarlo ai fini dell’intrattenimento, mettendolo al servizio di un modello produttivo che non ha mai avuto a cuore né lo sviluppo né la complessità dei personaggi.

Landon, noto per commedie horror postmoderne come Auguri per la tua morte e Freaky, sembra rifarsi in parte al Wes Craven di Red Eye, che vent’anni fa aveva già tentato di rielaborare certe dinamiche narrative del decennio precedente. Le sue scelte di regia, però, sono abbastanza scontate, come l’utilizzo dei piani olandesi per restituire lo spaesamento della protagonista. Espedienti del genere dimostrano quanto l’high concept, anche quando pretende di spiazzarci con giravolte e colpi di scena, ottiene solo l’effetto di rassicurare il pubblico, intrappolandolo in schemi e strumenti predefiniti. Una formula che, di fatto, non è molto diversa dai menù ricorrenti dei fast food.

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