Se è vero che i film di mostri hanno spesso una componente di critica sociale, Death of a Unicorn ci casca dentro con tutte le scarpe, senza badare ad alcun tipo di sottigliezza. Da anni, ormai, nel cinema di genere si consuma uno scontro politico che non deve affatto sorprendere (accogliere istanze politiche è nella natura stessa dei generi, non dimentichiamolo), ma la differenza è che gli studios hollywoodiani ne hanno tratto un business: film come Ready Or Not, The Menu o Glass Onion fagocitano le più comuni pulsioni anticapitaliste a scopo satirico, appuntandosele al petto come un tesserino di riconoscimento. Ciò che ne deriva è quel filone denominato “Eat the rich”, da una celebre frase attribuita a Jean-Jacques Rousseau (“Quando il popolo non avrà più da mangiare, allora mangerà i ricchi”) la cui popolarità è stata alimentata dai social network.
Ebbene, l’esordio registico di Alex Scharfman rientra a pieno titolo in questa categoria, e basta poco per intuirlo. Paul Rudd interpreta Elliot Kintner, in viaggio con la figlia Ripley (Jenna Ortega) per trascorrere il fine settimana nella lussuosa magione dei Leopold, magnati dell’industria farmaceutica. Elliot è il legale di famiglia, e deve gestire il passaggio di consegne tra Odell Leopold (Richard E. Grant), la moglie Belinda (Téa Leoni) e il figlio Shepard (Will Poulter), dato che Odell è malato terminale. Mentre attraversano i boschi canadesi, però, Elliot e Ripley investono una strana creatura: con loro grande sorpresa, si tratta di un giovane unicorno. Ben presto, i Leopold scoprono che il sangue e soprattutto il corno dell’animale hanno poteri curativi, quindi decidono di studiarne la fisiologia per commercializzare un farmaco universale. Soltanto Ripley, studentessa di storia dell’arte in lutto per la perdita della madre, si rende conto che le azioni dei Leopold potrebbero avere conseguenze mortali, ma nessuno le dà retta.
D’altra parte, come potrebbero? I tre membri della famiglia galleggiano nelle loro manie da ricchi privilegiati: Odell sciorina continuamente usanze e rituali di popoli indigeni con ammirazione paternalista; Belinda tratta le sue attività di beneficienza come una forma di concessione dall’alto, senza nemmeno conoscerne lo scopo; e Shepard non fa che alternare capricci e passioni repentine. Insomma, i Leopold corrispondono alla più classica rappresentazione dei potenti in questo filone satirico. Il problema, però, è che né Death of a Unicorn né i suoi predecessori (con l’eccezione dei film di Bong Joon-ho) riescono a smarcarsi da una satira innocua, il cui effetto è tutt’altro che dirompente; al massimo, rassicura il 99% di trovarsi moralmente dalla parte giusta, e il restante 1% di non essere davvero così stupido come i ricconi sullo schermo. In altre parole, finisce solo per placare le masse, più che incitarle al cambiamento. Non a caso, la stragrande maggioranza di questi film non immagina nuove forme di convivenza sociale o sistemi economici post-capitalisti, ma si limita a constatare l’ovvio (vale a dire che il capitalismo è oppressivo e iniquo) senza proporre alternative che non siano puramente individuali: la vittoria sui potenti è sempre un risultato personale, o al massimo di coppia, mai collettivo.
È vero, i riferimenti cinematografici di Scharfman – soprattutto Alien e Jurassic Park – hanno palesi sfumature politiche, e non mancano di denunciare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, o la hybris egomaniacale dei capitani d’industria; ma il loro contenuto politico risulta organico alla storia, non è un gagliardetto “performativo” da sventolare sotto il naso del pubblico. Death of a Unicorn ha invece bisogno del ridicolo per comunicare il suo messaggino, e non riesce a gestire nemmeno quello. Se il pastiche tra commedia, horror e fantasy non è un’idea malvagia, i suoi sviluppi si perdono in una scrittura caotica, a tratti persino illogica, sfociando in un terzo atto da home invasion che si rivela piuttosto tedioso. Viene da chiedersi chi si diverta davvero, tra gli spettatori e il regista del film.
Così, nonostante l’intuizione degli unicorni mostruosi sia buona (e Scharfman si impegni ad abbracciare in pieno le dinamiche di un creature feature), alla fine la critica sociale è vacua, i personaggi sono respingenti, e la ricerca storica non lascia grandi tracce sul prodotto finito. Un altro buco nell’acqua per A24, dopo Heretic e Opus.
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