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The Electric State di Netflix ha tanti problemi

(Ma anche qualcosa di buono, a cercare bene sotto i rottami)

Pubblicato il 18 marzo 2025 di DocManhattan

Se avete sentito parlare di The Electric State, il film di fantascienza uscito su Netflix una manciata di giorni fa, in toni apocalittici, non è tanto per la sua storia a base dell’ennesima guerra tra esseri umani e robot. Anche perché quel conflitto è visto per una volta dalla parte delle macchine, ed è comunque solo la cornice della storia. Il punto sono semmai i 320 milioni di dollari che questo film, diretto da Anthony e Joe Russo e interpretato, tra gli altri, da Millie Bobby Brown, Chris Pratt, Ke Huy Quan, Giancarlo Esposito e Stanley Tucci, è costato. O il risultato portato a casa. Ma è davvero così brutto, The Electric State? Di certo, fa di tutto per sembrarlo.

The Electric State

FACCIA L’ACCENTO SVEDESE

Devo essere sincero. Ho trascorso la prima ora di visione di The Electric State, metà film, con un sopracciglio alzato come neanche il The Rock dei vecchi tempi. Questo film, accaparrato da Netflix dopo che Universal ha deciso di mollarlo, tre anni orsono, è infatti la trasposizione di un romanzo illustrato di Simon Stålenhag, Electric State, pubblicato anche da noi, anni fa, da Mondadori. Non un fumetto, non una graphic novel, ma praticamente un artbook accompagnato da testi essenziali, che racconta di una ragazza e di questo robottino giallo che, in un 1997 alternativo, attraversano una versione desolata degli Stati Uniti, un paesaggio disseminato di quanto resta di enormi robot da battaglia.

Gli scenari in cui immergersi sono del resto l’elemento forte delle opere di questo eclettico artista svedese, come la precedente Tales from the Loop, da cui è stata tratta la serie Loop per Prime Video. Ed ecco, la critica più frequente alla trasposizione live action di Electric State che si legge in giro è che il film Netflix ha perso quell’atmosfera speciale, malinconica e opprimente, che si respirava nel libro di Stålenhag, riducendo il tutto a una classica storia di apparenze ingannevoli, di buoni e cattivi, di figure stereotipate. Lo penso anch’io, e per questo, davanti a Chris Pratt che faceva un altro Starlord, e a Giancarlo Esposito nei panni dell’ennesimo villain alla Giancarlo Esposito, più che elettrizzato, mi sentivo narcotizzato da quanto stavo guardando.

The Electric State

PINOCCHIO, TEZUKA E PLUTO

Poi le carte in tavola cambiano leggermente, almeno per quanto riguarda Esposito (ma è una semplice variazione sul tema del cattivo giancarloespositiano), e nello sconforto emergono un paio di piccole cose positive. Ora, non so dirvi esattamente quanto queste siano genuinamente frutto di un minimo di apprezzamento da parte mia, e quanto invece uno stimolo autoindotto per arrivare alla fine di due ore di deja vu, perché stavo peraltro guardando il film in piena notte, e con otto ore di fuso, in compagnia del mio vecchio bro chiamato jet lag.

Ma c’è questa scena in cui uno dei robot, all’ingresso di una sorta di paradiso meccanico popolato da bizzarri esseri di metallo, sta leggendo un fumetto dei Vendicatori della Costa Ovest, placidamente spaparanzato su un lettino. Un auto-omaggio dei fratelli Russo per il loro curriculum pieno di Avengers? Probabilmente. Ma ad attirare la mia attenzione sono stati gli altri fumetti del robot, in un rack lì accanto. Edizioni USA di vari manga, come Baoh, Guyver e Cobra.

E mi ha colpito perché proprio in quel momento stavo pensando a quanto questa fiaba di Pinocchio al contrario, con un bambino diventato automa, mi ricordasse per temi e alcune trovate estetiche Astro Boy di Tezuka, e di riflesso il Pluto di Naoki Urasawa. Sono i robot davvero di qualsiasi forma e dimensioni. Il polmone di vetro in cui si trova uno dei protagonisti, così simile alla camera di stasi del robottino Atom di Tezuka. Insieme al design del droide di Pratt, e al suo utilizzo in stile matrioska, sono quello che mi è piaciuto del film. Sì, sono dettagli. Sì, tutto qui. Ma sì, mi piace menzionarli.

The Electric State

DALLA E ALLA RUGGINE

Al netto del clan di freak robotici, le performance piatte e/o riciclone dei due interpreti principali non aiutano. Tutto sembra tirato da una parte dalla volontà di farne una storia d’avventura di buoni sentimenti, secondo i canoni Amblin, dall’altro dal tentativo di spacciarlo per un Guardiani della Galassia in mezzo al deserto. Il tema dell’umanità preda di una dipendenza totale dalla tecnologia, da cui è incapace di staccare gli occhi e nella quale riversa tutta la propria esistenza, non è nuovo, e non solo perché abbiamo letto e visto da anni cose come Ready Player One, ma perché basta dare un’occhiata in giro quando si esce per strada.

Nonostante i suoi difetti, ho idea che un sacco di gente guarderà The Electric State, e magari a molti piacerà pure, perché è un classico “film da piattaforma”, e spesso l’indulgenza che si prova verso questo genere di produzioni è tanta, forse perché vengono percepite come dei (molto, molto, molto costosi) film TV. Al cinema si sarebbe rivelato con ogni probabilità un bagno di sangue, su Netflix ha almeno il traino dei fan di Millie Bobby Brown e Chris Pratt. Per due ore disimpegnate, praticamente in qualsiasi accezione dell’aggettivo.

E pazienza se del mondo di Stålenhag, per il più classico degli stereotipi sugli adattamenti hollywoodiani, è rimasta solo la ruggine.

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