Una sera di gennaio, scorrendo distrattamente le notifiche sullo smartphone, scopro che uno degli artisti che stimo di più al mondo non c’è più. Che quei problemi di salute dovuti a una vita di fumo, quelli per i quali la scorsa estate aveva dichiarato che non avrebbe diretto più nulla, se lo sono infine portato via. David Lynch è morto, leggo, e il flusso inarrestabile di notizie si ferma, la mia bolla si ferma. Per qualche ora, chiunque conosco non parla d’altro. Penso sia difficile anche solo provare a spiegare a chi non dovesse conoscere i suoi lavori che cosa ha rappresentato David Lynch per più generazioni, ai tempi in cui tutto questo lo si è vissuto più o meno in diretta. “Al mondo mancherà la sua voce originale e unica”, ha detto Steven Spielberg, per ricordare il collega scomparso. Difficile dargli torto. D’altronde, quanti cineasti hanno un aggettivo per indicare ciò che ricorda o imita le loro opere? Dici “lynchiano”, e non devi aggiungere altro. Quand’è che iniziata?, mi sono chiesto. Quando ho scoperto Lynch? E lì mi sono tornati in mente il grande equivoco collettivo su I segreti di Twin Peaks e una vecchia videoteca che oggi è un gommista.
Quando l’agente dell’FBI Dale Cooper, interpretato da Kyle MacLachlan, arriva in questa cittadina di montagna apparentemente sonnacchiosa chiamata Twin Peaks, per indagare sulla morte di Laura Palmer, in Italia è il gennaio del 1991. Mezzo Bel Paese è convinto che quello che Canale 5 sta presentando con una campagna pubblicitaria martellante – con le celebri note del tema di Angelo Badalamenti a interrompere qualsiasi programma, a qualsiasi ora, per ricordare che c’è questo mistero su chi ha ucciso Laura Palmer da svelare – sia un semplice giallo, un classico whodunnit con una certa atmosfera. Un pubblico estremamente vasto ed eterogeneo inizia così a seguire la messa in onda della serie, ma parte se ne allontana quando scopre che no, non è per niente un thriller come un altro. Sono praticamente certo che per mia nonna, per dire, sia stato il primo e unico contatto con David Lynch.
Ma, ovviamente, c’era anche chi sapeva. Perché aveva letto di come Twin Peaks aveva furoreggiato l’anno prima negli USA, dando il calcio d’inizio a una rivoluzione del mezzo. O più semplicemente perché conosceva David Lynch. Ai tempi avevo quindici anni e non ricordo esattamente quale sia stato il punto di partenza, almeno un paio d’anni prima. Forse una citazione nella pagina introduttiva di un Dylan Dog o di un altro fumetto, o un numero di Ciak. C’era questo mio amico, figlio del proprietario di un videonoleggio, con cui guardavamo qualunque cosa a tema fantascienza, horror, Kubrick e Vietnam (era quel periodo) arrivasse nel negozio del padre. A un certo punto, in queste maratone su nastro del sabato pomeriggio, ci finì anche Lynch. E poi c’erano i film videoregistrati dalla TV, grazie al buon Ghezzi e a Fuori Orario. E un paio di altri conoscenti-pusher degli scout – trivia: anche Lynch ha fatto lo scout, per un sacco di tempo – che facevano girare VHS interessanti. Non di quel tipo, eh. Voglio dire, non solo, almeno.
Unisci queste fonti di approvvigionamento culturale da riavvolgere prima della restituzione e, tempo di finire le medie, avevo già visto (in alcuni casi più e più volte) Eraserhead – La mente che cancella, The Elephant Man, Dune e Velluto Blu. All’arrivo di Twin Peaks, in pratica, dei film girati fino a quel momento da questo quarantenne del Montana dai capelli meravigliosamente spettinati in ogni singola foto che lo ritrae su Ciak, avevo visto tutto tranne Cuore Selvaggio, che avrei recuperato comunque di lì a poco.
Tutto questo ve lo racconto non per vantarmi dell’essere un uomo di mezza età e quindi demi-vecchio, o di aver fatto chissà che. Ve lo racconto perché guardare quelle pellicole durante l’adolescenza ha cambiato il mio modo di vederlo, un film, e quello che mi aspetto da quella visione. Ma è lo stesso, identico percorso su cui si sono incamminati negli anni milioni di spettatori, prima e dopo Twin Peaks, ammaliati dall’unicità delle opere di questo artista visionario. Era impossibile guardare un suo film e uscirne indifferenti, come succede purtroppo per buona parte di quello che ci passa sotto gli occhi.
Potevi capirli o non capirli, ti potevano confondere o stregare. Potevi perderti nella natura ibrida del mezzo-film e mezzo pilota di una serie mai nata come Mulholland Drive. Potevi sognarti la notte l’uomo misterioso di Robert Blake dopo esser rimasto a bagnomaria nel noir surreale di Strade perdute. Potevi cercare il bandolo della matassa in quella ragnatela di momenti e sensazioni che era Inland Empire. Potevi restare a discutere ore sull’Internet di Fuoco cammina con me (Laura Palmer fuori dal cellophane) o della seconda serie di Twin Peaks. Potevi difendere a spada tratta il suo Dune del 1984, e non solo per il Feyd-Rautha di Sting. Potevi persino cercare di capire il senso di quella scimmia parlante chiamata Jack. Ma niente di tutto questo ti lasciava indifferente, era solo rumore di fondo, scivolava via.
Primi anni Duemila. Sono a casa dei miei, sto riguardando Eraserhead in DVD, perché voglio scriverne per una rivista horror di cui mi occupo all’epoca. Mio padre, nato un anno prima di Lynch, amante della pittura ed estimatore unicamente di pellicole ambientate nel selvaggio West, arriva sul finale e si ferma a guardare la scena della testa del bambino-pianeta, dell’abbraccio, del rumore bianco in crescendo che diventa nero. Lo vedo colpito. Alla fine, dice solo “Salvador Dalí”. Ammiro la sua sintesi, perché con l’aggiunta di “Luis Buñuel” sarebbe stato il miglior modo possibile, forse, per descrivere che tipo di cinema sperimentale aveva creato Lynch, indebitandosi fino al collo per completare Eraserhead. Senza tirare in ballo il surrealismo di Un chien andalou (che Lynch sosteneva di non aver mai visto prima di girare il suo film), era proprio difficile provare a spiegare la storia di Henry Spencer.
Quel giorno racconto a mio padre degli inizi di Lynch, degli anni da pittore, del suo amore giovanile per Oskar Kokoschka, che lo porta a compiere un infruttuoso viaggio in Europa, conclusosi molto prima del previsto a causa della deludente Salisburgo. In quella chiacchierata, pronuncio un imprecisato numero di volte la parola artista. Come avrei continuato a fare, nel corso degli anni, ogni singola volta, per ribadire l’ovvio: ci sono i registi, e poi ci sono i visionari. I primi girano i film, i secondi cambiano la grammatica del cinema e, già che ci sono, metti, rivoluzionano anche il concetto di serie televisiva.
Non so che fine abbia fatto quel mio amico delle medie, il cui padre aveva una videoteca. Al posto di quel videonoleggio c’è da una ventina d’anni un gommista. Ma so che stasera riguarderò per l’ennesima volta uno dei film di questo signore del Montana, sempre magnificamente spettinato. Glielo devo.