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Parthenope, il film di Sorrentino è un omaggio alla sua città non perfetto, ma comunque bello

Pubblicato il 23 maggio 2024 di Andrea D'Addio

Se nel finale il personaggio di Stefania Sandrelli non avesse sottolineato in maniera esplicita la metafora del film, come se prima non fosse chiara, Parthenope sarebbe stato un film con tanti aspetti positivi, forse poco mordente, ma comunque ambizioso, ricco di spunti come sempre Paolo Sorrentino ci ha abituati a fare. Ed invece così viene il dubbio che a non essere completamente convinto di quanto fino a quel momento mostrato sia stato lo stesso cineasta napoletano. E se non lo è lui, come potremmo esserlo noi?

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2024, Parthenope racconta la vita dell’omonima protagonista, la nascita, i primi amori, gli studi universitari. Salta gli anni di mezzo, quelli da persona adulta, e arriva direttamente a lei da anziana prossima alla pensione. È una ragazza mozzafiato (Celeste Dalla Porta), una di quelle in grado di conturbare chiunque, persino il fratello maggiore. Per lei gli uomini sono disposti a qualsiasi cosa. È venerata come la sirena a cui è ispirato il suo mitologico nome e che proprio qui si suicidò, diventando sinonimo di Napoli. Ogni mondo possibile apre le proprie porte davanti a lei. E lei, di rimando, lo abbraccia. Dal glamour di Capri alla malavita dei quartieri spagnoli passando per quella religione che lì è summa di paradossi, il sacro si mischia al pacchiano, i “farabutti” al genio dialettico. È tanto, troppo. E difatti alla fine chi vuole salvarsi è costretto a scappare al nord…

Paolo Sorrentino firma un omaggio a Napoli sulla falsariga di quanto fatto per Roma con La Grande Bellezza. Qui però sceglie un personaggio sostanzialmente silenzioso e che quando parla è pieno di frasi ad effetto per chiudere velocemente qualsiasi conversazione. È un cavallo di Troia per mostrare ciò che le sta intorno più che lei stessa, la cui qualità perdurante è la sua inafferrabilità. Durante il film non ha una versa maturazione, non viene intaccata dagli eventi. Come Napoli è imperturbabile al tempo. E questo, a livello drammaturgico, finisce dopo un po’ per rendere il film stanco. Cosa si vuole raccontare davvero? È necessario mettere sù questa grande messa in scena per una metafora in fin dei conti comprensibile già dopo un’ora (delle due complessive). Non c’è una risposta assoluta.

Se a livello narrativo si può obiettare a Sorrentino l’incapacità di sorprendere o di pigiare sull’acceleratore, dall’altro la sua maestria  nel rendere le cose non belle, ma bellissime, dagli attori ai panorami cittadini così come il suo sapere scrivere salaci dialoghi pieni di aforismo sul modo di guardare e interpretare il mondo, fanno della visione un’esperienza avvincente. Sorrentino sa girare, sa far montare (Cristiano Travaglioli) e fotografare (Daria D’Antonio) e sa scegliere cast e musiche.  Ogni momento del film regala almeno un momento di gioia per gli occhi o il cervello. Più volte viene voglia di dire “mettiamo stop” e così ragionare più a lungo su ciò che si è appena visto o ascoltato. E non è, anche questo, sinonimo di grande cinema?