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Il mio amico robot, la recensione del film di Pablo Berger

Pubblicato il 03 aprile 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Il titolo originale de Il mio amico robot è Robot Dreams, come il celebre racconto di Isaac Asimov pubblicato nell’omonima antologia. La storia immaginata da Asimov è significativa: in virtù delle modifiche apportate al suo cervello positronico, cui viene applicato un modello di geometria frattale per renderlo più simile al cervello umano, un robot acquisisce la capacità di sognare. Ciò che sogna, sostanzialmente, è di essere sollevato dai doveri cui sono incatenati i suoi simili, costretti a lavorare per gli umani senza la possibilità di reagire. Ma nel sogno le tre leggi della robotica non sussistono: l’unica legge valida è infatti una versione accorciata della terza, secondo cui “Un robot deve proteggere la propria esistenza”. In altre parole, l’automa non sogna nient’altro che la libertà per sé e gli altri robot.

L’illustratrice Sara Varon, autrice del libro da cui è tratto il film di Pablo Berger, rievoca quel sogno di libertà attraverso una visione dolcissima, malinconica, ma anche estremamente lucida. E il regista basco – che non aveva mai diretto un film d’animazione – riesce a darle voce con il talento di un narratore per immagini: Il mio amico robot è infatti un puro racconto visivo, senza dialoghi, e in tal senso è ancora più radicale di Blancanieves (che aveva le didascalie). D’altra parte, i grandi maestri del cinema d’animazione non hanno mai avuto bisogno di parole nelle loro opere, come dimostrano i capolavori di Aleksandr Alekseev, Norman McLaren o Caroline Leaf. In questo caso, però, Berger gestisce il racconto per immagini nell’arco di un intero lungometraggio, ricordandoci come il parlato sia fondamentalmente accessorio nella Settima Arte.

La storia è ambientata nella Manhattan degli anni Ottanta, in un mondo di animali antropomorfi. Dog (che, come potete immaginare, è un cane) vive da solo nel suo appartamento, stanco di non avere nessuno con cui condividere le giornate. La soluzione è però a una telefonata di distanza: c’è infatti un’azienda che vende robot da compagnia, e Dog non esita a ordinarne uno. Il robot arriva nel giro di poco tempo, anche se Dog deve ingegnarsi un po’ per assemblarlo. Una volta completo, l’automa diventa subito un grande compagno di avventure: lui e Dog fanno di tutto insieme, tra cui ballare sui pattini al ritmo di September degli Earth, Wind & Fire. Alla fine dell’estate, i due sono ormai inseparabili. Un giorno, Dog porta il robot al mare, ma l’acqua ne arrugginisce i meccanismi, lasciandolo bloccato sulla sabbia. Si fa tardi, gli altri villeggianti se ne vanno, e Dog non riesce proprio a spostarlo. Il robot gli suggerisce di tornare a casa per la notte, ci riproveranno l’indomani. Purtroppo, però, le spiagge chiudono fino al giugno dell’anno successivo, e un alto recinto metallico impedisce l’accesso. Dog deve quindi trovare un modo per raggiungere il suo amico, ma la vita si mette in mezzo.

Insomma, non è difficile immaginare l’importanza dei sogni per i due amici divisi. Immobilizzato sulla spiaggia, il robot ha proprio i sogni come unica via di fuga, e i suoi aneliti di libertà partoriscono coreografie alla Busby Berkeley immerse nel Regno di Oz. Dog torna invece prigioniero della sua solitudine, e i sogni rappresentano una via di fuga anche per lui, sempre alla disperata ricerca di un contatto. Queste digressioni fantastiche occupano buona parte del film, e Berger è abile a inserirle nel racconto senza soluzione di continuità; al punto che talvolta – come nel primo sogno del robot – i confini tra dimensione onirica e realtà sono indistinguibili. Eppure, il mondo de Il mio amico robot è davvero credibile, nonostante sia popolato da automi e animali: con un disegno aggraziato e precisissimo, il film ci offre un ritratto meticoloso di New York City negli anni Ottanta, per nulla patinato né edulcorato dalla nostalgia. Berger ci porta nelle strade della metropoli, con i suoi rumori, le sue canzoni d’epoca, il caos vibrante dei marciapiedi e la popolazione variopinta. Una città che si muove al ritmo dei suoi abitanti, talvolta ruvida, talvolta calorosa e accogliente.

In effetti, Il mio amico robot parla una lingua universale, comprensibile ad adulti e bambini, sebbene il tratto grazioso e delicato possa far pensare a un target esclusivamente infantile. Maturo e consapevole (ma non cinico) è il suo punto di vista sui legami affettivi, poiché valorizza l’importanza di guardare avanti, di superare la perdita e fare tesoro dell’esperienza. Più che una fiaba, uno spaccato di vita: poco importa se i personaggi non hanno un aspetto umano. La vicenda di Dog e Robot dimostra la potenziale fragilità dei rapporti interpersonali, come pure la loro intensità quando si traducono nella condivisione di momenti preziosi, tra il quotidiano e l’eccezione. Ma è anche una celebrazione della musica in quanto arte capace di avvicinare le persone, creando memorie che diventano un rifugio dove tornare. In fondo, non è sempre una canzone a suscitare il ricordo delle estati passate? Berger usa il cinema per narrare la transitorietà delle relazioni, nonché la ricchezza della vita come mosaico di peripezie, vicissitudini e incontri che non ci lasciano mai per davvero.

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