Cinema Recensioni roberto recchioni
Devo ammetterlo: l’esperienza fatta un paio di giorni fa, all’anteprima stampa di Thunderbolts* è stata piuttosto illuminante per me. La sala era gremita come capita quasi sempre (e solo) con i cinecomics (alla faccia della superhero fatigue) e composta da un insieme di critici di lungo corso (ormai pochi, in quanto razza in estinzione che non si riproduce più, come i panda), critici Gen X (quelli che si sono formati nei newsgroup e si sono affermati con i forum e i blog), critici Gen Y (i millennial, che si sono formati su forum e blog, affermandosi poi con YouTube), critici Gen Z (quelli che si sono formati con YouTube e che si sono affermati su TikTok) e poi un insieme vario di content creator veri e ex-influencer che oggi si sono riciclati come content creator.
Tutti, nei minuti prima dell’inizio della proiezione, dimostravano un ironico distacco e scetticismo per il nuovo film dell’MCU, quel distacco dell’adolescente che guarda i suoi giochi di bambino e sorride della loro futilità.
Poi le luci si sono abbassate, sullo schermo è apparso il consueto logo della Marvel (in una versione leggermente diversa, declinata sul tono del film) e sono risuonate le trionfali note della logo animation. Giuro, la sala ha prima trattenuto il respiro e poi ha palpitato. Si è anche sentito qualche squittio infantile di pura eccitazione a stento trattenuta. È corso tra di noi un elettrico di desiderio e un’insopprimibile speranza.
Desiderio che il film fosse bello e speranza di poter tornare ad amare (amare davvero, dico, senza doversi accontentare) un film prodotto da quell’MCU che ha cambiato il cinema moderno e che, nel bene e nel male, ha saputo intercettare, rappresentare e unire le ultime quattro generazioni.
Poi il film è cominciato e ci ha messo davanti alla realtà: da Endgame sono passati oltre cinque anni, dalla battaglia di New York ne sono passati tredici e dalla prima volta che Tony Stark ha messo la sua armatura, ben diciassette.
Gli Avengers non ci sono più, Tony non c’è più, il mondo non solo è cambiato ma è andato avanti e quello che ci rimane sono rovine e personaggi compromessi, danneggiati, rotti. Come i Thunderbolts.
Il gruppo, creato da Kurt Busiek e Mark Bagley, nasce nei fumetti in un momento in cui gli Avengers (e gran parte degli altri eroi) sono spariti e un gruppo di misteriosi nuovi giustizieri mascherati ne prende il posto, i Thunderbolts, appunto.
Nel corso della loro storia si scoprirà che dietro a quelle nuove maschere si nascondono, in realtà, vecchi supercattivi, con un piano piuttosto elaborato in testa.
Il film, scritto da un trittico di autori non particolarmente significativo (Lee Sung Jin, Joanna Calo, Eric Pearson) e diretto dall’ugualmente anonimo Jake Schreier, prende le mosse da questo spunto e lo declina alle necessità cinematografiche ma, soprattutto, a quelle produttive di un universo cinematografico Marvel piuttosto in affanno e a corto non solo di eroi, ma anche di grandi attori.
Sulla carta, le premesse sembrano le peggiori, giusto?
E invece, Thunderbolts* ribalta i pronostici e, come un’improbabile squadra di provincia che in un anno magico quasi vince il campionato, riesce a riaccendere se non proprio l’entusiasmo, almeno un poco di speranza.
Ma bisogna essere onesti: Thunderbolts* non è un buon film in tutto e per tutto.
Parte bene, con un buon ritmo e un paio di sequenze molto riuscite (sia come scrittura che come regia), ha una svolta anche abbastanza imprevista (e forse figlia di un rimaneggiamento produttivo), ma poi si addormenta, gira a vuoto, si complica la vita nel raccontare in maniera molto confusa una trama piuttosto semplice e non riesce a farti credere mai nella minaccia che porta a schermo (che, per la cronaca, è Sentry-Void, uno dei personaggi più spinosi creati dalla Marvel in tempi recenti).
Di contro, fortunatamente, i personaggi sono belli, facili da amare e ben interpretati (su tutti svetta, abbastanza prevedibilmente, Florence Pugh, ma anche il resto del cast è abbastanza in stato di grazia), il film ha molto cuore e, soprattutto, porta avanti due temi interessanti.
Il primo è sostanzialmente una riflessione metacinematografica e riguarda il senso di vuoto e di fine che la scomparsa degli Avengers ha lasciato, non solo nei personaggi dell’MCU ma nel cuore degli spettatori.
Il secondo, invece, è un’esplorazione non scontata (per un film di puro intrattenimento) del tema della depressione, che poi è il vero boss finale di questo film, un boss che non si può sconfiggere e con cui è possibile solo scendere a patti.
La contrapposizione di cose che funzionano a cose che non funzionano per niente è Thunderbolts*, un film straordinariamente simile ai personaggi che porta in scena e quindi imperfetto, compromesso, pieno di problemi, ma con un cuore e un coraggio enorme.
Un underdog che bisogna tifare per forza e a cui è impossibile non volere bene.
Insomma, vedetelo. Anzi, adottatelo.
P.S.
Due note prima di lasciarvi.
Nota uno: vedetelo, sì, ma se potete, vedetelo in lingua originale. I finti accenti russi del doppiaggio italiano aggiungono un livello di imbarazzo che non fa parte del film e di cui non bisogna addossargli la colpa.
Nota due: il film ha due scene post-credit (Feige le ama troppo per decidersi ad abbandonarle, anche se hanno chiaramente fatto il loro tempo).
La prima è uno sketch comico, non particolarmente divertente o significativo.
La seconda è la più lunga scena post-credit mai messa in coda a un film dell’MCU e sì, è importante e ripaga dei lunghissimi titoli di coda che bisogna sciropparsi per vederla.
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