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Passages, la recensione del film di Ira Sachs

Pubblicato il 13 luglio 2023 di Lorenzo Pedrazzi

Il caso di Parigi, 13Arr. ha dimostrato la vocazione tutta francese di raccontare l’amore ai tempi del multiculturalismo, immerso nel flusso costante di una metropoli che non si ferma mai. Ira Sachs è americano, certo, ma fin dal precedente Frankie (2019) il suo cinema si è gradualmente spostato oltralpe, e Passages potrebbe rappresentare il culmine di questa preziosa evoluzione.

È evidente che in Francia – e soprattutto nel milieu artistico della capitale – il regista di Memphis trova un contesto più adatto alla sua sensibilità, quindi più fluido e meno giudicante. Al contempo, è anche un mondo che si fa meno problemi a recepire un protagonista sgradevole, lontano dai favori del pubblico: pur mettendo in scena un triangolo amoroso, infatti, Passages sceglie il vertice più problematico dei tre come personaggio principale, ed è qui che risiede gran parte della sua onestà. Tomas (Frank Rogowski) è un regista tedesco che sta girando un film a Parigi, dove vive con suo marito Martin (Ben Wishaw), artista inglese di grafica. Il loro matrimonio viene però messo in crisi dall’incontro con Agathe (Adèle Exarchopoulos), fascinosa insegnante francese per cui Tomas perde la testa. Agathe rappresenta una novità eccitante, ma il regista è troppo volubile per accontentarsi: quando diventano una coppia stabile, Tomas comincia a sentire la mancanza di Martin, che nel frattempo ha cominciato una relazione con uno scrittore.

Si parlava di fluidità, e infatti Sachs rievoca un ambiente dove la sacralità del matrimonio è un concetto reazionario, come pure la vita stanziale e i programmi a lungo termine: esemplari le incomprensioni fra Tomas e i genitori di Agathe, in una scena che sintetizza bene l’incompatibilità tra la media borghesia e il mondo delle arti. Il regista, in tal senso, è bravo a calare i personaggi nel loro habitat socio-culturale, inserendoli in una rete di amici e colleghi che condividono i loro valori. Ci sono feste, cene, ritrovi di vario genere, appuntamenti di lavoro e altro ancora: Passages non isola i personaggi nei rispettivi orientamenti sessuali – come accade spesso con i token gay del cinema più commerciale – ma li mette in comunicazione con una cerchia più ampia, li fa vivere nel nostro mondo e nel nostro tempo.

Il fulcro resta però sempre lui, Tomas, protagonista controverso perché disperatamente umano. Narcisista, pressoché incapace di vedere le esigenze altrui, preda di un’indecisione perenne, Tomas desidera sempre quello che non ha, e tale brama finisce per metterlo alle strette. La sua frustrazione sul set, quando si spazientisce con un attore che non rispetta le sue richieste, ne prefigura il carattere: è un uomo di potere che deve sempre ottenere ciò che vuole, altrimenti è divorato dalla solitudine e dall’insoddisfazione. Il punto, però, è che nemmeno lui sa cosa vuole realmente, come dimostra il continuo tira e molla con Martin e Agathe. Se funziona come protagonista, è anche grazie al contrasto fra il suo carattere opinabile e la dolcezza di Frank Rogowski, attore quantomai versatile che continua a dimostrarsi una perla rara del cinema europeo. Ma il trio stesso, con Ben Wishaw e Adèle Exarchopoulos, è davvero formidabile in quanto a fascino e carisma.

Ne deriva un ritratto spietato (ma fedele) dei legami romantici al giorno d’oggi, dove il caos dei sentimenti mina la stabilità dei rapporti, e la paura di rimanere soli influisce sulle decisioni più affrettate, insieme alla libido: Tomas è puro desiderio, e questo demolisce gli affetti da cui si era circondato. Il naturalismo della regia di Sachs – generosa ma mai gratuita nelle scene di sesso – accentua il senso di realtà che trapela dalla storia, anche grazie ad ambienti che paiono genuinamente vissuti, consumati dal tempo e dall’uso. Passages è un frammento di vita che non pretende di essere risolutivo, né di fornire risposte sicure, ma abbraccia la sospensione come un fattore inevitabile: fa parte dell’esistenza di tutti noi, e dobbiamo accettarlo. In fondo, nella nostra esperienza di ogni giorno, quante storie finiscono per davvero?