Il secondo episodio della stagione 3 di The Mandalorian aggiusta decisamente il tiro rispetto al debole esordio. Non siamo ancora alle vette della stagione 2, ma The Mines of Mandalore, se non altro, non perde tempo a portare Mando e Grogu sulla superficie (e nel sottosuolo) del pianeta natale dei Mandaloriani, dove Din Djarin cerca le miniere in cui si nascondono le acque che dovrebbero purificarlo e restituirlo al Credo. L’episodio si conclude con un diretto cliffhanger, a riprova del fatto che questa stagione sarà più orizzontale delle precedenti – e questo farà storcere il naso a chi apprezzava la struttura da “monster of the week” delle prime due stagioni. Ma andiamo con ordine.
Nello scorso episodio avevamo lasciato Mando e Grogu dopo uno scontro con dei pirati spaziali, alla ricerca di un nuovo processore per il droide IG-11. Quella quest si conclude – forse! – in maniera inaspettata e incongruente in questo nuovo episodio, che sembra essere stato progettato per far dimenticare allo spettatore il primo in tempo record, quasi che Jon Favreau si fosse reso conto al volo che non era proprio il massimo. È una battuta, sia chiaro, però non possono non venire in mente certe scelte discutibili di The Book of Boba Fett. In ogni caso, si tratta dell’unico vero passo falso – o, più che altro, incomprensibile – di questo episodio, che per il resto rappresenta un’avventura standard del Mandaloriano, venata di riferimenti alla narrativa pulp che tanto piace a Favreau (qui sceneggiatore, per la regia di Rachel Morrison).
La maggiore qualità di The Mines of Mandalore è che, come dice il titolo stesso e come abbiamo detto in apertura, qui non si mena il proverbiale can per l’aia ma si arriva subito al dunque: a Mandalore, alle rovine della civiltà dei Mandaloriani e alle miniere che rappresentano la conclusione dell’attuale quest di Din Djarin. Ovviamente le cose non andranno come previsto, e i nostri eroi, con un piccolo aiuto da parte di un personaggio molto amato, dovranno affrontare le minacce mostruose che si nascondono nell’oscurità delle rovine di Mandalore.
Sì, The Mines of Mandalore è un episodio piuttosto standard, ma sarebbe stato un primo episodio decisamente migliore del precedente, The Apostate. Il quale, a parte un po’ di esposizione sulla scomunica di Mando (di cui già sapevamo da The Book of Boba Fett, per altro) e sul destino di Cara Dune, si è rivelato per ora abbastanza superfluo. Confidiamo che alcuni dei semi piantati dall’episodio sbocceranno più avanti, ma resta il fatto che se la stagione fosse partita con questo The Mines of Mandalore non saremmo altrettanto guardinghi o critici come ora.
Alla luce di quel primo episodio, invece, non possiamo che rilevare una serie di trend preoccupanti anche in questa seppur buona seconda puntata: la tendenza a far apparire ogni volta personaggi noti ai fan (non siamo, qui, al livello del puro fanservice, perché parliamo di personaggi ormai stabili nella serie, ma The Mandalorian ci piaceva perché introduceva ogni volta personaggi nuovi, e finora così non è), un maggiore affidamento all’arco narrativo generale a discapito della personalità del singolo episodio, la tendenza al namedropping e una generale dolcezza che va a smussare gli angoli più violenti e western della serie. Si dice spesso che, quando cala la longa manus della Disney, non c’è più spazio per la spontaneità e una maggiore ruvidezza dei contenuti. Nella maggior parte dei casi sono solo dicerie, eppure qui è evidente come lo studio abbia tentato di imporre una visione più omogenea dell’universo di Star Wars, non tanto nella violenza, quanto nell’eterna necessità di connettere i puntini per creare un universo coeso, alla MCU. C’è da dire che la tendenza a smussare gli spigoli è connaturata alla serialità americana: da sempre, le serie americane promuovono un’idea di famiglia estesa – composta non dai propri famigliari, ma dagli amici che si incontrano lungo la strada – disfunzionale eppure amorevole, le cui divergenze vengono via via – scusate la ripetizione – smussate, per arrivare a un’armonia che scalda il cuore dello spettatore. È un’idea che rispecchia l’America, dove il tessuto sociale è carente e le persone sono costrette a crearsi delle reti di salvataggio, facendo affidamento su pochi intimi amici. Sta succedendo anche in The Mandalorian, che sia volontà della Disney o di Jon Favreau. Tocca farsene una ragione.
Il risultato è che, quella che è iniziata come una serie su un mercenario a tratti spietato, sta diventando la storia di un padre amorevole, attorniato da amici fidati che gli vogliono bene. Din Djarin si sta trasformando, insomma, in un eroe a tutto tondo, idealista (qui fa un discorso che richiama palesemente la diaspora ebraica, paragonandola a quella mandaloriana) e valoroso. Tutto questo perché? Beh, considerando che Mando detiene la Dark Saber e che Bo-Katan non sembra molto intenzionata a sfidarlo per riaverla, sembra proprio che Jon Favreau stia preparando il terreno per un’ascesa di Din Djarin al trono di Mandalore. Sarebbe forse il tradimento definitivo dello spirito della serie, ma è una traiettoria che in questo momento pare inevitabile. Certo, considerando che Favreau sta già scrivendo la quarta stagione, sarebbe strano se ciò avvenisse già nella terza. In ogni caso, è evidente ormai che The Mandalorian non potrà andare avanti per sempre, e che, dopo due stagioni quasi perfette, la magia potrebbe essersi rotta. Attendiamo comunque con ansia i prossimi episodi, perché a questa galleria di personaggi ormai vogliamo bene.