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Bentornato Henry Cavill. Forse il tuo Superman non l’abbiamo mai capito

Pubblicato il 30 ottobre 2022 di Giulio Zoppello

James Gunn è stato chiamato a dirigere l’universo cinematografico della DC Comics, e una delle prime novità ma sarebbe meglio dire una delle prime conferme, è di quelle che i fan aspettavano da anni: Henry Cavill tornerà nei panni di Superman, non semplicemente per un cameo come quello visto in Black Adam, ma perlomeno per un altro film stand-alone. Cavill a conti fatti rappresenta una variante impazzita per quello che riguarda il mondo dei supereroi, perché a dispetto del fatto che i film a cui ha partecipato non hanno raccolto consenso unanime, lui ha sempre convinto come Superman, anzi si può dire che forse da certi punti di vista è stato ampiamente sottovalutato.

Un nuovo Superman per un nuovo secolo

Prima di interpretare Kal-El, Henry Cavill veniva da una carriera interessante ma non molto spettacolare.

Si era distinto per la prima volta in Montecristo di Kevin Reynolds, per poi finire in film come Stardust, Cappuccetto Rosso, Tristano e Isotta e nella serie tv I Tudors, che di base attirò su di lui le attenzioni della Hollywood che conta. Il salto finale di qualità, tanto per rimanere coerenti, in un altro blockbuster secondo molti sottovalutato e che non è andato particolarmente bene al botteghino: Immortals, sorta di fantasy sanguinolento ambientato tra i miti dell’antica Grecia.

Lì Cavill si segnalò per una presenza scenica non indifferente, una fisicità e un sex appeal non da nulla, nonché per quella faccia da bravo ragazzo che per molti altri attori è stata sovente una condanna.

Zack Snyder scelse lui per essere il nuovo Superman. Gli altri nomi erano quelli di Matthew Goode, James Holzier, Armie Hammer, Matt Bomer, Joe Manganiello, Zac Efron e Colin O’Donoghue.

Ancora oggi onestamente, è difficile obiettare qualcosa su quanto questo inglese delle isole di Jersey sia riuscito a essere perfettamente credibile nei panni del supereroe per eccellenza.

A dirla tutta, tanti altri attori avevano cercato di raccogliere l’eredità di Christopher Reeve, e il pensiero non può che andare al tutt’altro che trascurabile Brandon Routh, ma l’esito assolutamente nefasto di Superman Returns, dovrebbe sempre essere preso in considerazione da chiunque valuti molto severamente Man of Steel di Snyder.

Quel Superman pieno di dubbi e perplessità, in un mondo ostile, è ben diverso da quello che la saga ci aveva regalato fin dagli anni ‘70. Sì, perché ora che Henry Cavill torna, un aspetto assolutamente fondamentale riguarda quanto in realtà il suo Kal-El sia sempre stato perfettamente coerente con l’idea che Superman bene o male si deve confrontare con il mondo, e per mondo intendiamo quello reale, quello di questo ventunesimo secolo così diverso dall’epoca reaganiana.

La solitudine del diverso dalla norma

La sceneggiatura di Man of Steel era curata da Christopher Nolan e David Goyer, non proprio due tizi qualsiasi. Non sbagliò chi notò grosse similitudini tra ciò che Nolan aveva fatto nella sua trilogia dedicata al Cavaliere Oscuro e diversi aspetti di questo Superman, che come nel fumetto originale cresce in una fattoria ma lo vediamo non sapere esattamente chi è, cosa fare con quei poteri che nasconde al mondo.

Man of Steel uscì nel 2013, il mondo era assediato oltre che da una crisi economica gravissima, dal terrorismo, da una contrapposizione tra Occidente e Oriente, e in generale da una conflittualità trasversale. Regnava il pessimismo, onde per cui proporre tout court un Superman ottimista, solare, che portasse la tanto famosa speranza senza alcun pavimento, senza nessuna lotta interiore, sarebbe stato alquanto risibile.

Si potrà criticare Man of Steel per altri elementi, come uno scarso sviluppo dei personaggi di contorno, ivi compresa Lois Lane, così come su quanto abbia per certi versi modificato alcuni dei pilastri narrativi connessi all’identità e al codice di comportamento di Superman.

Ma la realtà è che ce lo mostrò solo, sperduto, senza una chiara idea o direzione da prendere, ed è stata una delle mosse migliori che si potesse fare, e che ha permesso a Henry Cavill di dimostrare che non era semplicemente un bel faccino su un corpo da statua greca.

In lui più volte affiora una conflittualità interiore profondissima, così come il fatto di essere connesso ad un codice morale di comportamento basato sull’invisibilità, sulla certezza che è stata incultatagli dal padre Jonathan Kent: l’uomo tratta i diversi dalla norma e ciò che non comprende nello stesso modo, cioè con ostilità, con odio e con violenza. Difficile dargli torto, difficile non vedere la volontà di darci un supereroe meno sicuro di sé perché più connesso al reale, al mondo in cui vive.

Un Superman più umano e meno divino

Jor-El, un convincete Russell Crowe, riviveva grazie all’intelligenza artificiale, si confrontava con il figlio, e i suoi insegnamenti sono essenzialmente opposti a quelli di Jonathan Kent. Jor-El gli parla di responsabilità, delle necessità di salvare il pianeta e guidare l’umanità con il suo esempio.

Cavill di base per tutto il film cerca di capire chi è, che cos’ha in serbo per lui il futuro, qual è il suo ruolo perché a tutti gli effetti sa benissimo di essere un alieno su questo pianeta. Man of Steel è stato quindi anche un racconto di formazione, che ci ha guidato poi verso ciò che Superman è stato in Dawn of Justice e Justice League: il protettore per eccellenza, armato di generosità e altruismo.

Ma prima,  prima c’era questo ragazzo senza un’identità, veramente libero paradossalmente solo nel momento in cui Jonathan Kent, che su di lui ha sovente un’autorità fin troppo stringente, si sacrifica per mantenere il segreto sulla sua vera natura.

Si può sicuramente discutere su quanto quella scena possa sembrare ancora oggi strana, secondo alcuni pessima, ma la realtà è che in quella morte vi è l’asse portante di un concetto di autodeterminazione che comincia a muoversi. Eppure allo stesso tempo, senza Jonathan Kent, Clark Kent e Superman non coesisterebbero, egli non si sentirebbe in tutto e per tutto partecipe di questa umanità dentro cui si nasconde in piena luce, non ne capirebbe fragilità, paura e la nostra quotidiana verso una felicità che spesso non raggiungiamo. Si, senza dubbio fin da quel primo film, Henry Cavill è stato molto diverso da Christopher Reeve, ma allo stesso tempo ha saputo spingersi e portarci verso nuovi orizzonti. Ha umanizzato quello che a tutti gli effetti è sempre stato un personaggio alquanto difficile con cui empatizzare, in virtù di una superiorità sostanzialmente divina e biblica.

Il suo Superman non è divino, è umano, ma in modo molto meno manicheo di quello di Reeves, che bene o male era spesso molto distante dall’uomo in senso generale. Cavill invece si sente un uomo come gli altri, non un kryptoniano, abbraccia il concetto assolutamente moderno che la casa, la patria, è dove si sceglie di stare, non dove si è nati.