Cinema

Blade Runner, o quando abbiamo smesso di immaginare il futuro

Pubblicato il 25 giugno 2022 di Lorenzo Pedrazzi

Sono passati tre anni da quando il futuro di Blade Runner è stato superato dalla Storia, e 40 dalla sua uscita nelle sale. Nel 1982, il 2019 era percepito come un futuro piuttosto remoto, anche perché si trovava ben oltre la soglia psicologica del 2000, cui la grande fantascienza novecentesca ha sempre attribuito la maternità di strabilianti prodigi tecnologici. A questi miracoli abbiamo assistito in diretta, quasi controvoglia: il futuro vissuto non è mai paragonabile al futuro immaginato, e la maggior parte dei cambiamenti avvengono per gradi. Ben prima che arrivasse il 2019, era chiaro che le visioni distopiche di Blade Runner non si sarebbero avverate, non in modo letterale; e allora, perché quella concepita dal film di Ridley Scott è diventata l’idea “archetipica” di futuro, talmente radicata nel nostro inconscio collettivo da non riuscire a superarla?

La verità è che – con le dovute eccezioni – da Blade Runner in poi è divenuto sempre più difficile immaginarlo, il futuro. O quantomeno immaginarlo in modo diverso, emancipandosi dallo straordinario lavoro concettuale di Syd Mead e dall’esistenzialismo tormentato di Philip K. Dick. Ovviamente le idee visive del film sono a loro volta derivative: la Los Angeles del 2019 combina il fitto skyline di Hong Kong con la Metropolis di Fritz Lang e il retrofuturismo di Métal Hurlant, avvolgendoli in un’atmosfera neo-noir che per il cinema di fantascienza era un’assoluta novità. Uno dei punti focali del discorso sta proprio qui. Blade Runner, dice Sandro Bernardi ne L’avventura del cinematografo, è “il capolavoro di questo uso della citazione come fondamento per una scrittura che è tutta un tessuto di altre scritture”, rendendosi al contempo sia moderno sia postmoderno: “È moderno per l’uso della citazione come strumento riflessivo per ricordare il passato, ed è postmoderno per la citazione come nostalgia e come concezione del mondo, un mondo in cui niente è originale e tutto è replica, anche lo stile”. Basti pensare alle inquadrature ravvicinatissime degli occhi, figlie tanto del surrealismo (Un chien andalou di Buñuel) quanto di Kubrick e del “cinema dello sguardo”. Ridley Scott si pone così a metà strada fra il ritorno del cinema delle attrazioni che caratterizzerà i blockbuster hollywoodiani – con la loro spettacolarità ostentata – le vecchie avanguardie e la New Hollywood. L’occhio, insomma, è ancora una macchina formidabile attraverso cui il cinema si fa e si fruisce, mentre l’atto del guardare non è passivo, bensì conoscitivo.

Blade Runner è quindi ancora legato alle tendenze autoriali degli anni Settanta (come il ripensamento dei generi in una prospettiva disillusa: Deckard, in fondo, non è che una versione futuristica di Marlowe), ma è anche il campione del cinema postmoderno, raro caso in cui il citazionismo si fa arte. Il problema, però, è che il nostro immaginario collettivo è rimasto fermo agli strati più superficiali di questo discorso, esaltando una “poetica dell’omaggio” che spesso e volentieri non ha la stessa complessità del film di Ridley Scott. Ciò che in Blade Runner è arguta rimediazione del passato in un futuro ipotetico, a tal punto che lo stesso Scott sosteneva di aver fatto “un film vecchio di 40 anni collocato 40 anni nel futuro”, nel cinema successivo è diventato una mera tendenza a citare e rimasticare i modelli, senza alcuna meditazione critica, ma solo come omaggio nostalgico e strizzatina d’occhio.

Anche questa è la dimostrazione che “il nostro Zeitgeist è essenzialmente hauntologico”, per citare il Mark Fisher di Spettri della mia vita. L’odierna cultura popolare è infatti perseguitata da forme creative e sociali del passato, che resistono nel nostro presente come fantasmi: vecchie saghe resuscitate, oggetti e tendenze vintage che tornano di moda, sottogeneri e stili estetico-musicali creduti morti e poi riproposti per le nuove generazioni. Questa concentrazione ossessiva sul passato ci fa perdere di vista il presente, traducendosi nella “incapacità di generare nuovi ricordi”. Fredric Jameson, citato proprio da Fisher, l’ha detto in modo chiaro: la cultura postmoderna è inabile a “mettere a fuoco il nostro stesso presente, come se fossimo diventati incapaci di concepire delle rappresentazioni estetiche della nostra esperienza attuale”. Ovviamente ci sono le eccezioni, per quanto sporadiche. Con l’ottimo Matrix Resurrections, ad esempio, Lana Wachowski dimostra che è ancora possibile riflettere sui nostri tempi attraverso un prodotto dell’industria culturale, peraltro combinando intimismo e universalità. Un discorso simile si potrebbe fare per Everything Everywhere All at Once, dove l’intera avventura ruota attorno ai pericoli dell’apatia e del nichilismo, mali tipici del mondo occidentale contemporaneo. Ma, come accennato prima, sono casi abbastanza isolati.

Ciò che ne deriva è una limitazione della nostra capacità (e forse anche della nostra volontà) di immaginare il futuro. Troppe volte, le speculazioni sul mondo che verrà riecheggiano Blade Runner, anche sul piano visuale: non solo siamo incapaci di generare nuovi ricordi, ma anche di concepire futuri diversi. Se è vero che – sempre Fisher – “ciò che risulta soppresso nella cultura postmoderna non è il lato Oscuro, ma quello Luminoso”, e che “ci troviamo molto più a nostro agio con i demoni che non con gli angeli”, allora i nostri sogni del domani finiscono sempre per diventare degli incubi. Film come Gattaca, Dark City, Synchronicity e Reminiscence, o serie tv come Altered Carbon e Love, Death & Robots (in particolare l’episodio Pop Squad), dimostrano come i futuri ipotetici del cinema e della televisione fatichino moltissimo a smarcarsi da Blade Runner. I riferimenti possono essere di carattere atmosferico, luministico o puramente architettonico, ma l’impronta è evidente.

Non a caso, è sempre più difficile restare davvero sbalorditi da una visione fantasmagorica, immaginifica o futuristica sui nostri schermi. Spesso si preferisce ideare il futuro come lo si sarebbe immaginato negli anni Ottanta e Novanta, andando così a stimolare la nostalgia un po’ feticista per i “futuri passati”: emblematici i casi di Maniac, Lightyear e persino Severance, che però di questa scelta stilistica fa un’intelligente strumento satirico. Il paradosso più grande, però, è proprio il seguito ufficiale del capolavoro di Scott, ovvero Blade Runner 2049. Anche in questa circostanza abbiamo un “futuro passato”, ma non poteva essere altrimenti: il film di Denis Villeneuve è infatti costruito su un’idea di futuro che risale al 1982, e deve trovare soluzioni creative per giustificare la sua fantascienza retrò (come il fantomatico blackout che ha spazzato via tutti gli archivi digitali precedenti al 2022, e che costringe il protagonista a un’indagine vecchio stile). Eppure, riesce anche a trovare un compromesso tra le fantasie degli anni Ottanta e le esigenze dell’oggi, trasponendo nel 2049 sia l’attuale dibattito sull’intelligenza artificiale sia l’ansia generata dalla moltiplicazione dei sistemi di ripresa. Non può né vuole essere innovativo come l’originale, questo è chiaro, ma esemplifica le condizioni in cui si trova l’industria culturale, troppo impegnata a inseguire il passato per concepire un futuro realmente nuovo. In tal senso, l’influenza di Blade Runner è stata talmente forte da inibire il nostro potere immaginativo: siamo ancora fermi lì, e il problema è proprio questo. Il meraviglioso film con Harrison Ford non dovrebbe essere il punto d’arrivo del nostro immaginario, un vertice idealizzato e invalicabile, bensì un punto di partenza per continuare a sognare. Solo così potremo rendere omaggio alla sua eredità.