C’è un momento, durante la visione di Stranger Things 4, in cui orientarsi nella stagione diventa quasi impossibile: come succede alla bussola di Dustin quando si trova nei pressi del Sotto Sopra, anche la nostra bussola interna comincia a girare freneticamente su sé stessa, alla caccia di un punto di riferimento. Le serie tv ci hanno sempre abituato a una suddivisione piuttosto netta fra gli episodi, anche quando seguono un’unica trama orizzontale: se pensiamo a Lost o Game of Thrones, ad esempio, non è difficile isolare le nostre puntate favorite, e ricordare cosa succede al loro interno. Ora però i confini sono molto più sfumati, e gli show delle piattaforme online – non a caso, quelli che escono in blocco – tendono a eliminare queste differenze, immergendoci in un singolo flusso narrativo. Stranger Things 4 rappresenta l’evoluzione definitiva in quella direzione: con i suoi episodi in formato da medio o lungometraggio (il settimo sfiora i 100 minuti, ma pare che l’ultimo toccherà le due ore e mezza), questa stagione ci assorbe e stordisce fino a una specie di trance, un po’ come il malvagio Vecna con le sue vittime.
Seguendo la consueta suddivisione annuale, le nuove puntate si svolgono nel 1986. Undici, Will e Jonathan si sono trasferiti in California con Joyce, mentre Lucas, Max, Dustin, Mike, Nancy, Steve e Robin sono rimasti a Hawkins. Il liceo è duro per Undici, senza poteri e bullizzata quotidianamente dai compagni, mentre Dustin e Mike hanno trovato rifugio nell’Hellfire Club: un gruppo di Dungeons & Dragons guidato dal ribelle Eddie, rockettaro ultra-ripetente che odia il conformismo. Del gruppo fa parte anche Lucas, che però è entrato nella squadra di basket, mettendo così piede nella cerchia dei ragazzi popolari. Max, straziata dal dolore per la morte di Billy, si è trasferita con la madre in un campo di roulotte dopo l’abbandono del padre adottivo. Jim Hopper è sopravvissuto all’esplosione del portale, ma i Sovietici lo hanno spedito ai lavori forzati nella gelida Kamčatka. Intanto, il Sotto Sopra riprende a perseguitare i cittadini di Hawkins: una misteriosa creatura soprannominata Vecna – altro nome che deriva da D&D – comincia a uccidere gli adolescenti della città, e i nostri eroi capiscono che stavolta la minaccia è molto diversa dal passato.
Il riassunto della trama, molto essenziale per evitare spoiler, può soltanto sfiorare quella che è la vera natura di Stranger Things 4. Da piccolo omaggio agli horror per ragazzi degli anni Ottanta, la serie si è evoluta in una macro-narrazione ben più vasta, un leviatano di generi cinematografici che si alternano senza soluzione di continuità. Di fatto, la quarta stagione sintetizza almeno quarant’anni di blockbuster hollywoodiani, condensandoli in un gigantesco tentpole dove l’orrore cosmico è solo la traccia dominante. Ogni personaggio e ogni linea narrativa porta con sé un genere diverso: la fantascienza nei laboratori di Hawkins; il teen-drama nelle vicende scolastiche di Undici; la commedia romantica nel rapporto fra Nancy e Jonathan; il prison movie nelle avventure di Hopper in Russia; lo stoner film negli intermezzi con Argyle (l’amico fattone di Jonathan); l’azione pura nei segmenti con l’esercito. L’horror stesso, seguendo la maturazione dei protagonisti, ora guarda ai sottogeneri del gore e dello splatter, il cui target è adolescente o post-adolescente.
Insomma, quella che ci troviamo davanti non è più una semplice serie tv, ma un fenomeno omnicomprensivo che riassume le attuali tendenze della cultura popolare, sempre più votata alla contaminazione dei toni e dei generi. Dallo Zeitgeist che ci circonda proviene anche il feticismo per il passato, con le sue tecnologie analogiche (il walkman di Max, le VHS di Family Video…), i suoi cult musicali e persino l’alba di internet. Stranger Things 4 ha il merito di incapsulare tutto questo in un sistema ramificato, dove la cultura pop è parte integrante della vita quotidiana. Allo stesso tempo, rievoca con arguzia le ossessioni politico-sociali dell’epoca: non solo la Guerra Fredda (spietata da entrambe le parti), ma anche l’isteria collettiva del “Satanic panic” che contagiò gli Stati Uniti tra gli anni Ottanta e i Novanta. Ciò che ne deriva è la classica contrapposizione tra la comunità e i singoli, fedele a quel retaggio cinematografico che celebrava i reietti e i perdenti. Lo schematismo di fondo è sempre il solito, ma forse è anche inevitabile: la serie dei fratelli Duffer attinge a una tradizione manichea, dove lo spazio per le sfumature è molto limitato, e le divisioni sociali molto marcate. Per intenderci, non c’è da stupirsi che sia il capitano della squadra di basket a portare la torcia del fanatismo religioso.
È chiaro che le ambizioni sono molto cresciute, e non solo per la presenza di una cornice storica più accurata. Consapevole di avere tra le mani un successo assicurato, Netflix ha dato carta bianca ai fratelli Duffer per confezionare una stagione enorme, dove ogni singolo episodio è un blockbuster in miniatura (e talvolta a dimensioni naturali). Stranger Things 4 ci trascina via con le sue puntate lunghissime ma eterogenee, alternando spettacolo e momenti intimisti per tenere sempre desta l’attenzione del pubblico. Trattandosi di un cast corale sempre più grande, la durata serve anche ad approfondire il percorso di ogni personaggio e le conseguenze degli eventi passati: il caso di Barb, in tal senso, è stato di grande insegnamento per gli autori, che non trattano più con leggerezza né gli effetti del trauma né il vuoto lasciato dalle vittime. Se Max diventa protagonista di una scena ad alto impatto emotivo, culmine del suo processo di elaborazione del lutto, è proprio grazie a questa consapevolezza in sede di scrittura.
Un contributo determinante è offerto dal nuovo antagonista, che per la prima volta nella storia di Stranger Things non è solo un mostro o una generica entità, ma un vero e proprio personaggio. I Duffer si sono ispirati soprattutto a Freddy Kruger (e in minima parte a Pennywise) per creare un avversario che penetra nell’intimo delle sue vittime, usando i ricordi allo stesso modo in cui Kruger sfruttava i sogni. Certo, le sue trappole mentali non sono altrettanto creative (gli incubi dei vari Nightmare erano molto più folli), e stilisticamente lo stesso Vecna non è proprio memorabile, per quanto ricordi da vicino l’estetica degli anni Ottanta. Comunque, la presenza di un cattivo dotato di un volto e di una voce, con cui i nostri eroi possano interagire faccia a faccia, è una gradita novità.
Resta il dubbio che i fratelli Duffer siano vittime di una hybris incontrollata, come se ritenessero che ogni singola loro idea sia troppo buona per essere tagliata. La scarsa capacità di sintesi e l’eccessivo ricorso alla sospensione d’incredulità appesantiscono alcuni passaggi della stagione, che però nel complesso gestisce bene la vastità del racconto: persino le operazioni di retro-continuity, una volta tanto, fanno un buon servizio alla costruzione della mitologia. Sempre ottimo il lavoro di casting, che continua a trovare delle facce interessanti e non banali, a partire da Eduardo Franco (Argyle) e Joseph Quinn (Eddie). L’amore per i personaggi è tangibile, anche quando gli autori ne evidenziano i possibili lati oscuri, in primis nel caso di Undici. I protagonisti sono cresciuti, quindi la loro interiorità diviene più complessa e magmatica: non affrontano più l’orrore in quanto bambini, ma come giovani adulti. Così, si avvicinano sempre di più all’età del loro target ideale.