Creare un racconto tutto al femminile è da sempre una delle pratiche più usate, o per meglio dire abusate, da parte della cinematografia e anche della serialità televisiva. Tuttavia riuscire a creare un racconto di qualità da tali premesse, è qualcosa di molto più difficile di quanto si pensi, non solo perché l’argomento è usurato, ma anche perché la possibilità di mettere in scena qualcosa di fantasioso, creativo è distante dal déjà vu, è assolutamente proibitivo.
Apple TV+, tanto per confermare quanto sia la migliore tra le piattaforme sul mercato, vince anche questa scommessa, lo fa con Roar, serie antologica di 8 episodi a metà tra provocazione e metafora, tra dark humor e la perfetta rappresentazione di cosa voglia dire essere donne nel XXI secolo.
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Roar è il ruggito creato di Liz Flahive e Carly Mensch, le due menti dietro quel piccolo miracolo che fu Glow, tra le tante vittime di quella scellerata linea Netflix che sta alla base della terribile crisi della piattaforma al momento. Questa serie è tratta dalla raccolta di racconti scritta da Cecilia Ahern (per chi non lo sapesse è l’autrice di Ps. I Love You) e appassiona dal primo all’ultimo minuto. L’insieme in fin dei conti è perfettamente coerente alla loro dimensione di narratrici fantasiose, irriverenti, capaci di interpretare la realtà andando ben oltre la mera riproduzione di essa, ma cercando piuttosto di andare a scovare il modo giusto per parlare delle contraddizioni, delle difficoltà che essere donne oggi comporta, a dispetto del femminismo che pare essere in pieno predominio. Ma esiste davvero questo cambiamento? Oppure solamente un elemento di uno storytelling con cui distrarci dalla realtà della vita? Un’offensiva narrativa che però non tiene conto della vita pratica, reale, di come la società cambia molto più lentamente di quanto sarebbe giusto, di quello che servirebbe alle fasce più disagiate della popolazione. “The Woman Who…” comincia così ognuno degli otto capitoli, delle otto storie, con cui Roar si prende ogni tipo di libertà narrativa con cui proporci delle piccole fiabe, a metà tra fantasy e fantascienza, tra grottesca ironia e malinconica tragedia del vivere quotidiano.
Lo fa con un cast di prima grandezza, che annovera negli otto episodi interpreti del calibro di Issa Rae, Nicole Kidman (anche produttrice), Cynthia Erivo, Betty Gilpin, Merritt Wever, Alison Brie, Meera Syal e Fivel Stewart.
Tutte assieme riescono nel miracolo di rendere universalmente comprensibile un universo che sovente nella serialità anche moderna, è apparso banalizzato a livello di caratterizzazione dei personaggi e delle loro dinamiche, ma soprattutto dei significati che lo compongono. Siamo distanti dal glamour, dall’autocelebrazione indulgente così come dalla colpevolizzazione, dal creare dei ritratti ad uso e consumo di un qualcosa di stereotipato e parziale.
Gli otto episodi ci parlano di donne che diventano invisibili, altre che invece cercano di restituire il marito difettoso dove l’hanno acquistato, senza sapere se è una buona scelta o no.
Poi c’è la donna in crisi di mezza età che divora le fotografie attanagliata dal terrore di trovarsi come la madre, ormai destabilizzata dall’Alzheimer.
E come può mancare poi la bellissima moglie messa in mostra come un trofeo, quella che pensa che gli animali siano migliori delle persone, oppure chi deve fare i conti con il panico ed i sensi di colpa indotti dal mondo circostante dopo una difficile gravidanza e il non riuscire a confrontarsi con il proprio futuro. Vi sarà chi dovrà fare i conti con le proprie paure, il proprio alter ego o con un mondo in cui le donne sono sempre l’ultimo dei problemi da risolvere, anche in ambito criminoso. Roar mischia più generi contemporaneamente, c’è il western, il giallo dalle tinte comiche, il thriller paranormale, la black comedy… emerge sicuramente a mano a mano che si va avanti una certa mancanza di equilibrio dell’insieme, così come al fatto che al netto di idee molto fantasiose, di una regia incredibilmente efficace, non sempre la messa in scena sia indovinata.
Altro elemento da tenere in conto, è come talvolta il filo conduttore al di là della realtà femminile, appaia alquanto debole, non vi sia quella capacità di rendere l’insieme coeso e diretto verso la medesima direzione. Tuttavia è fuor di dubbio che l’impatto finale sia di incredibile potenza, non possa lasciare indifferenti, non per l’incredibile crogiuolo di eventi, volti, atmosfere e la capacità di andare oltre i cliché, anche per la scelta di creare una serie ontologica invece delle tante interminabili agonie con cui abbiamo a che fare. Se si vuole fare un confronto, forse il migliore rimane quello con due “cult” di inizio millennio come furono La verità è che non gli piaci abbastanza di Ken Kwampis o The Women di Diane English. Dire che sono invecchiati malissimo al confronto sarebbe riduttivo, la verità è che questa è una serie che riesce sia per creatività che per audacia, a mettere in un angolo la descrizione delle problematiche femminili nella società per come la conoscevamo.
La dimensione sentimentale di questi film, spesso era un qualcosa con cui rendere gli uomini bene o male i veri protagonisti o qualcosa di superiore. Il mal d’amore viene incluso all’interno di uno sguardo dall’alto di grande seduzione ed efficacia, perché perfetto nel farci rendere conto come essere donne, nella nostra società occidentale, sia ancora oggi qualcosa di incredibilmente problematico.
Donne in carriera o madri? Spose fedeli o spiriti ribelli? Davvero il Me Too, il Black Lives Matter, le quote per le minoranze in campo artistico e lo storytelling inclusivo hanno funzionato? Oppure è solo un’illusione? Che cosa differenzia le donne di oggi dalle loro madri e dalle loro nonne? Su quest’ultima domanda in particolare in più di un episodio si avverte come forse non sia ancora in atto quella trasformazione dei valori e quella maggiore presa di coscienza dell’universo femminile che forse pensiamo sia diventata impressivamente una realtà stabile. Altro piccolo difetto è come alla fine l’insieme non riesca a fare a meno di diventare una sorta di crociata atipica e frammentaria, ma chiaramente connessa ad una sorta di impegno civile che però talvolta appare forse grossolano, forse mal posto. Tuttavia l’atmosfera in Roar rimane sempre a metà tra ironia agrodolce e sperimentazione, colpisce per energia e vitalità, ha l’ambizione di affrontare più temi e più problematiche senza mai tirarsi indietro, senza mai rinunciare ad essere un disperato grido d’aiuto.
Si avverte infine la constatazione di far parte di una società ancora legata ad una narrativa, ideali, punti di vista e valori creati dagli uomini per donne che devono adeguarsi al loro volere, che non riescono a trovare una quadra esistenziale perché sottoposte e mille spinte e mille stimoli interni ed esterni.
Alla fine la conclusione è semplice: come possono realizzarsi le donne in un mondo creato da maschi? Come si può avere successo in un percorso di autodeterminazione quando tutto intorno a te pare creato per chiuderti in una gabbia, magari esattamente nel momento in cui pensi di avercela fatta, di aver distrutto quella barriera secolare, essa invece ritorna sotto un’altra forma.
Non proprio un punto di vista da nulla, non esattamente una serie che vuole accarezzare lo spettatore maschile medio per il verso giusto. Ma forse è proprio questo che serviva.