Arriva nelle sale Matrix Resurrections, e già possiamo dire che la critica ed il pubblico siano divisi in merito a come valutare il film di Lana Wachowski. In molti si chiedono se, dopo vent’anni, la trilogia originale abbia ancora spunti di riflessione da offrire ad un pubblico che è sicuramente meno riflessivo di quello di vent’anni fa. Eppure rimane la più fervida fantasia nel parlarci di un’umanità sempre più schiava della tecnologia, sempre più in crisi di identità. Ecco allora, che forse occorre più che dividersi su questo nuovo film, oggettivamente di difficile lettura ed interpretazione, a metà tra cinica autoironia è critica la contemporaneità, guardare indietro, capire perché l’eredità di ciò che le sorelle Wachowski fecero a partire da quelle 1999, potrebbe aver schiacciato qualsiasi tentativo di prolungarne la narrazione. Perché ciò che fecero a quel tempo fu una profezia, ed oggi che nel futuro ci viviamo, il domani non lo vogliamo conoscere.
1999. Non è un anno come gli altri, è l’ultimo del ventesimo secolo, è l’anno delle grandi domande e del Millennium Bug, la fine del secolo breve e complesso, in cui la civiltà va sempre più forte, e guidata da una tecnologia che sovente lascia l’umanità indietro. O almeno questo è ciò che si percepisce tra spari, arti marziali e un impatto visivo senza precedenti in quel film, testamento di quel genere cyberpunk, che dagli anni Ottanta aveva cercato di mettere in guardia l’umanità da un futuro tecnocrate e tirannico. Neo, gli agenti, Morpheus, Trinity, ma soprattutto Matrix, sono parte di una narrazione che si spinge oltre, abbraccia il postmodernismo ma in particolare la visione dell’umanità. Da un punto di vista filosofico quel film parlava di sogno e realtà, di materiale e virtule. Il gatto che ricompare due volte, il contrasto tra luce e buio, tra dentro e fuori, sono a conti fatti tracce di una narrativa che si pone come metafora del rapporto tra l’umanità e una realtà in continuo mutamento. La tecnologia, che oggi sappiamo essere non meno tirannica verso il nostro vivere di come appariva in quel spettacolare film di fantascienza, era il vero nemico. Di base però emerse anche un insegnamento, nascosto tra bullet time e kung-fu: non si torna indietro, l’unica possibilità è quella di adattarsi, di piegarsi perché la realtà, il cucchiaio, non si piegherà, è impossibile che succeda. Ci sono voluti diversi anni, ma alla fine il primo capitolo di Matrix è stato riconosciuto per quello che è: un capolavoro della cinematografia, un momento di cesura assoluto tra ventesimo e ventunesimo secolo. Non tanto per la settima arte, ma per ciò che essa metaforicamente sa dirci di noi stessi, di quella civiltà occidentale che proprio nel XXI secolo, ha cominciato un corto circuito morale ed etico assoluto. Il risultato lo vediamo oggi: non riusciamo a svegliarci dal sogno, non crediamo più in noi stessi, nella scienza, siamo diventati dei nichilisti che cercano il Bianconiglio, ma poi scelgono la pillola azzurra.
Dal 1999 al 2003, a Matrix Reloaded. Il secondo episodio pagò molto una resa visiva molto più barocca, molto più votata ad essere connessa alla narrazione videoludica di cui già si intuiva la preponderante potenza in quei primi anni, come avesse completamente cambiato il concetto stesso di Storytelling.
Neo che abbraccia il suo potere, l’Agente Smith che si muove come un cancro nel mondo virtuale, la guerra delle macchine che incombe su Zion, il fabbricante di chiavi e poi il finale, con la rivelazione dell’Architetto: non esiste l’Eletto, tutto è parte di una strategia di controllo. Oppure no?
Se nel primo film grande protagonista era stata la differenza tra realtà virtuale e realtà fisica, tra il mondo materiale e il sogno, qui invece tutto gira attorno al concetto di scelta, come ci si possa arrivare.
Ma esiste davvero una scelta? Oppure tutto è frutto della legge di azione e reazione, di quella causalità che ebbe nel personaggio del Merovingio una delle sue declinazioni cinematografiche più interessanti?
Al mito della Caverna di Platone, qui si sostituì ciò che già Aristotele aveva sentenziato a suo tempo sulla causa e la sua natura. Parallelo, si recuperò Kierkegaard e ciò che pensava del libero arbitrio. Con scene d’azione ed inseguimenti tra i più spettacolari della storia, Matrix Reloaded sembrò essere meno ricco del suo predecessore dal punto di vista semantico, mentre invece era semplicemente diverso.
Non era infatti meno concentrato nel parlarci della Civiltà del futuro, di un’umanità che forse la scelta non l’avrebbe più avuta, e oggi sappiamo il perché: le macchine prevedono ogni nostra reazione e ci lasciano semplicemente l’illusione della scelta, che è in mano chi ha il potere, a chi comanda la tecnologia.
Sono intelligenze artificiali di chi tesse la tela di un’illusione di libero arbitrio, che ogni nostro like su Facebook ed ogni post su Instagram rende sempre più flebile. Senza conoscenza non abbiamo potere.
Matrix Revolutions, l’atto finale, seguì di lì a poco. Forse il meno amato dei tre, perlomeno per quello che riguarda i contenuti, la sua capacità di essere rivoluzionario e non solo connesso alla grandiosità della messa in scena. Ammettendo alcuni difetti della sceneggiatura, colmati da una spettacolarità semplicemente incredibile, con una battaglia come non si era mai vista nel mondo della fantascienza, il tema centrale dello scontro finale tra Neo e Smith, tra Zion e le macchine può essere racchiuso in una parola: l’equilibrio. La nostra civiltà degli anni 2000 questo concetto lo ha sempre più rinnegato, andando sempre più vicina ad una totale debacle, animata dalla stessa ferocia che rende cieco Smith mentre trasforma Neo e non si rende conto che senza equilibrio, pure lui è destinato a scomparire. La morte regna sovrana, ma non semplicemente nel senso negativo funebre, quanto come complimento di un ciclo, di un cerchio, quello formato da Yin e Yang che ha nei due contendenti il simbolo finale. Eppure, anche qui le Wachowski, senza che la critica all’epoca lo capisse, riuscirono a darci non solo la profezia di una civiltà, di un’umanità fluida, non più definibile dal genere o dalla mera fisicità. Ciò che quel (supposto) atto finale ci mostrò, fu anche la visione di un mondo ideale impossibile da creare, perfettamente equilibrato tra realtà fisica e realtà virtuale, dove la tecnologia è risorsa di libertà e non vi è asservimento dell’umanità alla sua stessa creazione. Qualcosa che anche in questo quarto episodio, arrivato fuori tempo massimo, Matrix ha cercato di mostrarci, nella perfetta coscienza che l’umanità in quanto imperfetta, non può che produrre strumenti imperfetti. In fondo, senza più ideali, senza più senso del collettivo, siamo tutti più simili a Smith: non abbiamo uno scopo, vogliamo solo di più, confondiamo progresso e avanzamento tecnologico. La società individualista ha distrutto il concetto di città, quindi di civiltà, rendendoci tutti chiusi nei bozzoli di una vita dove non abbiamo conoscenza, quindi potere, quindi scelta, quindi speranza.
QUI trovate la nostra recensione di Matrix Resurrections