Se è vero che l’adolescenza è un’invenzione degli anni Ottanta e Novanta, non c’è da stupirsi che oggi molti prodotti considerati “iconici” siano legati alla pubertà, soprattutto quando provengono da Netflix. Con aggressive campagne marketing e un linguaggio giovanilista sui social, il colosso dello streaming è abilissimo ad auto-mitizzarsi, costruendo un vero e proprio culto attorno alle proprie serie adolescenziali: basti pensare a titoli come Stranger Things, Tredici, Le terrificanti avventure di Sabrina, The End of the F***ing World ed Élite, amati dal pubblico e supportati dal servizio streaming con grande dispiego di mezzi (anche se viene da chiedersi quale dei due fenomeni influenzi l’altro).
Ebbene, il caso di Grand Army è piuttosto curioso, se partiamo da queste premesse. Creata dalla drammaturga, regista e insegnante di teatro Katie Cappiello, la serie trae ispirazione da SLUT: The Play, pièce scritta all’interno della All-Girl Theater Company con la collaborazione delle stesse adolescenti che fanno parte del gruppo. È stata lanciata lo scorso 16 ottobre dalla piattaforma on-line, anticipata da un suggestivo trailer, e teoricamente aveva tutto il necessario per innescare sia un dibattito mediatico sia l’interesse del pubblico: tematiche come lo stupro e lo slut shaming, discriminazioni razziali, storie di coming out, amori conflittuali, disparità sociali, e una capacità di ritrarre l’adolescenza in modo più verosimile e meno patinato rispetto alla maggior parte dei teen drama. Eppure, la sua distribuzione è passata in sordina, e la stessa Netflix ne ha quasi ignorato l’esistenza, nonostante gli indubbi meriti di Cappiello e della sua writers room. Cos’è successo?
Partiamo dal contesto. Grand Army è ambientata nell’eponimo liceo (fittizio) di Brooklyn, e racconta le vicende di tre studentesse e due studenti dell’istituto. Joey Del Marco (Odessa A’Zion) è una ragazza del penultimo anno che fa parte della squadra di danza, e conduce battaglie femministe come la campagna free the nipple. Anche Dominique “Dom” Pierre (Odley Jean) frequenta il penultimo anno: di origini haitiane, gioca nella squadra di basket e vuole studiare psicologia, ma intanto deve farsi in quattro per tamponare i problemi economici della famiglia. Del primo anno è invece Leila Kwan Zimmer (Amalia Yoo), cinese di nascita ma cresciuta da una coppia ebrea, che la adottò da neonata: discriminata sia dai bianchi sia dalle connazionali, è ansiosa di vivere le sue prime esperienze sessuali, e rielabora ogni vittoria o umiliazione attraverso le cruente fantasie di un’epidemia zombie (realizzate in animazione). Siddhartha “Sid” Pakam (Amir Bageria) è uno studente indiano-americano dell’ultimo anno, campione di nuoto e gay represso, che sogna di entrare ad Harvard e scrive un tema d’ammissione in cui confessa il suo orientamento sessuale. Infine, Jayson Jackson (Maliq Johnson) è un ragazzo afroamericano del secondo anno: sassofonista di talento, finisce nei guai con il migliore amico Jaden (Owen Williams) per le conseguenze di uno scherzo a Dom, ricevendo una sospensione.
Questo è il corpo centrale di Grand Army, che però si ramifica in un racconto ancora più corale, coinvolgendo gli amici e i familiari dei cinque protagonisti. Cappiello, acclamata da anni per le sue riflessioni sul femminismo e sugli abusi sessuali, ha tratto ispirazione dai suoi studenti per costruire le trame della serie, ma la sua reputazione è stata macchiata prima ancora che lo show arrivasse su Netflix. In occasione dell’uscita del trailer, la sceneggiatrice Ming Peiffer l’ha infatti accusata di comportamenti razzisti:
Io e altri tre sceneggiatori di colore che hanno lavorato allo show [in realtà sono tre in tutto, compresa lei] ci siamo licenziati a causa di sfruttamenti razzisti e abusi. La showrunner e creatrice si è comportata da Karen, e ha chiamato il quartier generale di Netflix perché la sceneggiatrice Nera si tagliasse i capelli. Sì, avete sentito bene.
Me and the 3 writers of color who worked on the show quit due to racist exploitation and abuse. The show runner and creator went full Karen and called Netflix hr on the Black writer in the room for getting a haircut. Yes you read that correctly. Who wants to interview us? https://t.co/tBEbk8JRqm
— Ming Peiffer (@mingpdynasty) September 2, 2020
Al di là del riferimento specifico, Peiffer accusa Cappiello di aver cercato di “sottopagare la sceneggiatrice latina che aveva appena vinto un Emmy, mentre lei non aveva mai lavorato in televisione prima d’ora”, e di aver narrato la storia di Dom come “pornografia della povertà”, nonostante gli sceneggiatori BIPOC le avessero consigliato di non farlo. In generale, si tratterebbe di un problema ben noto: Cappiello, che è bianca, si sarebbe appropriata di storie non sue, appartenenti ai suddetti autori colored. Una sua ex studentessa però la difende, facendo notare che quelle storie nascono dal confronto con gli studenti che lei ha aiutato:
Uh, serious question, what stories did she steal? Because I know that a lot of those characters are inspired by people shes helped, and by a lot of her students. Me being one of them. And I’m not coming at u or nothing. :/
— Francia (@franthethought) September 3, 2020
D’altro canto, Peiffer intende forse dire che Cappiello ha usato le idee degli sceneggiatori BIPOC anche dopo che si sono licenziati: sarebbe questa la sua colpa. In soccorso dell’autrice corre però Maliq Johnson, intervistato da Digital Spy:
Conosco Katie fin da quando avevo 14 anni. Quando sono uscite le accuse, non mi sono preoccupato perché la conosco benissimo e non potevo immaginare Katie comportarsi in quel modo. Non ho mai subìto niente del genere con lei.
Comunque sia, per Netflix è stato un colpo durissimo: il colosso dello streaming si vanta spesso delle sue politiche woke, e ha costruito su di sé un’immagine fieramente progressista (non senza una certa furbizia). Inevitabile chiedersi se tali polemiche non abbiano influenzato la scarsa promozione della serie, il cui unico picco è stata la distribuzione gratuita del primo episodio su Youtube. Non abbastanza, evidentemente.
Un alone controverso ha quindi circondato lo show nelle settimane precedenti al suo debutto. Indipendentemente dal fatto che le sopracitate polemiche abbiano influenzato o meno le scelte degli spettatori, di certo il pubblico non è accorso in massa per vedere i nove episodi della serie: la piattaforma on-line non fornisce i dati di visione, ma Grand Army è apparsa a malapena nelle top 10, non ha suscitato dibattiti sui social, e non è stata rinnovata nel giro di un paio di mesi come altri show di grande o medio successo. Anche le reazioni di molta critica americana – forse condizionate, queste sì, dalle polemiche – non sono state favorevoli. Particolarmente interessante è il commento di Anmiao Wu su Charitable, che legge (e stronca) la serie dalla prospettiva di una spettatrice cinese trasferitasi in Canada per motivi di studio. L’autrice si concentra sulla rappresentazione di Leila, sostenendo che la serie offra un ritratto stereotipato della comunità cinese.
Mentre tutti gli altri personaggi principali si danno da fare e affrontano grandi cambiamenti nelle loro vite, Leila trascorre la gran parte del suo tempo a competere per l’attenzione dei compagni di scuola. È talmente distratta da perdere persino il ruolo principale in una recita che lei dice essere “l’unica cosa” su cui ha delle aspettative.
Inoltre, per quanto riguarda le sequenze animate che mostrano le fantasie di Leila e il suo peculiare modo di rielaborare le esperienze personali:
Mentre gli altri quattro personaggi principali hanno i loro monologhi interiori, i loro processi di crescita e le loro autoanalisi rappresentate sotto forma di narrazione, il dialogo interiore di Leila è invece presentato attraverso sequenze d’azione animate piene di cliché degli anime. Questo non solo sminuisce la sua crisi, ma rende difficile per il pubblico prenderla seriamente. Il fatto che i problemi degli altri personaggi siano gestiti con cura tramite discussioni approfondite, mentre l’insicurezza di Leila sia visualizzata come un cartoon, mostra l’incapacità della produzione di rispettare Leila come personaggio e la comunità cinese.
Ora, senza voler sminuire la frustrazione di chi non si sente abbastanza rappresentato sullo schermo (soprattutto considerando che i personaggi asiatici sono spesso vittime di stereotipi), il punto credo sia un altro: Leila è forse il personaggio più complesso della serie proprio in virtù delle sue imperfezioni. La critica spesso dimentica che un/a protagonista non deve necessariamente fornire un esempio morale, ma può esprimere la propria umanità anche attraverso i suoi limiti, come nel caso di Leila. Non è un caso che sia la più giovane del quintetto: i suoi conflitti e la sua ricerca di attenzioni – oltre a essere molto verosimili – sono legati alla sua immaturità, nonché a un contesto sociale che si vanta di essere il più grande melting pot del mondo, ma in realtà tende a mantenere rigidamente separate le culture, le etnie e le religioni (da qui la lotta interna tra la sua cultura di origine e quella d’adozione, e il fatto che si senta estranea in entrambi gli ambienti. Quando, nell’ultimo episodio, Leila si rivolge a una compagna cinese con un perentorio «Speak fucking English!», nessuno pretende da noi spettatori di esultare per lei: non è un gesto liberatorio che merita sostegno, ma l’espressione di una società distorta che la costringe a radicalizzarsi per sopravvivere). Al contempo, le sequenze animate che ci proiettano nella sua fantasia non ne sviliscono affatto il carattere, poiché danno corpo a un’insicurezza che trova sfogo nella creatività, in un mondo “altro” che la ragazza può governare come protagonista e demiurga. È lì che ottiene le sue vendette: umiliando le rivali, consumando un ragazzo sensibile che ha sedotto, o soggiogando lo studente più grande che l’ha illusa (e costringendolo a praticarle un cunnilingus).
Quest’ultimo dettaglio attira le critiche di Jude Dry su IndieWire, che però cade nello stesso tranello. L’autore ritiene vetusto il femminismo slut-positive di Grand Army, e dice chiaramente che “venerare il cunnilingus come epitome della libertà sessuale sembra l’idea di parità di una donna etero quarantenne”. Una riflessione comprensibile, ma che scivola in una sbavatura molto comune fra i critici americani, spesso incapaci di separare il punto di vista del personaggio da quello dell’autore. Se anche la serie offrisse una prospettiva datata sul femminismo (non mi esprimo in proposito), sarebbe comunque la prospettiva di ragazze adolescenti che si sono appena affacciate su queste battaglie, e combattono per ciò che le riguarda più da vicino: il diritto al piacere, a vestirsi come vogliono, a gestire liberamente il proprio corpo, a non essere criticate per le loro abitudini sessuali. Battaglie che peraltro sono valide ancora oggi, e lo vediamo ogni giorno nella cronaca. Pensiamo alle studentesse di quel liceo romano che rivendicavano il diritto a indossare la minigonna senza essere importunate dagli sguardi dei professori: è successo pochi mesi fa, non nel secolo scorso. La validità di certe lotte femministe è fuori questione, ancora oggi.
La verità è che Grand Army, rispetto ad altri teen drama, ha il merito di inquadrare le sue tematiche da angolazioni non banali. Prendiamo il caso di Joey Del Marco. Nel terzo episodio, Joey va al cinema con Tim (Thelonius Serrell-Freed), George (Anthony Ippolito) e Luke (Brian Altemus), che l’avevamo supportata nella campagna Free the Nipple. Ubriachi, prendono un taxi e salgono tutti e quattro dietro, con Joey che siede loro in grembo. La ragazza flirta giocosamente con gli amici, servendosi di un dildo che un venditore le ha appena regalato. Tim resta in disparte perché credeva di avere con lei un rapporto speciale, ma Joey non vuole sentirsi troppo legata, teme che l’alchimia ne risulti stravolta, e continua a flirtare con gli altri due. Da ludica, la situazione si trasforma però in violenta quando George e Luke cominciano ad abusare di lei con il dildo, nonostante il chiaro dissenso della ragazza. Joey viene quindi stuprata dai suoi amici, mentre Tim ignora le sue richieste d’aiuto. È qui che Grand Army dimostra la sua maturità: mettendo in scena il contrasto fra la realtà di una violenza e la sua percezione esterna.
L’opinione pubblica – nel senso più generico del termine – tende ancora a relegare lo stupro entro contorni ben precisi, come se la violenza sessuale esistesse soltanto nelle situazioni più “stereotipate” (del tipo, una donna sola che viene aggredita di notte da uno sconosciuto e stuprata in un vicolo). Tutto ciò che diverge da quell’idea, per l’opinione pubblica è difficile considerarlo come “stupro”. Lo abbiamo appena visto in Promising Young Woman: gli stupratori di Nina non si rendono nemmeno conto di averla violentata, si stavano solo divertendo, era una festa, tutti avevano bevuto troppo. Le solite (assurde) giustificazioni. Analogamente, George e Luke vengono presi alla sprovvista quando Joey li accusa di stupro, e persino la migliore amica della ragazza – che però è anche la sorella di Tim – prende le loro difese. Si stavano solo divertendo. Erano tutti ubriachi. È stata Joey a provocarli. Ha cominciato lei. Anche qui, insomma, le solite storie.
L’ambiguità non risiede quindi nella violenza in sé (non ci sono dubbi che sia stato uno stupro), ma nella sua percezione da parte di amici, parenti, compagni di scuola, insegnanti, polizia, giudici e avvocati. Come capita spesso nella realtà, Joey viene lasciata sola, famiglia a parte. Eppure, non ci troviamo di fronte a un processo di vittimizzazione che svuota il personaggio di ogni altra caratteristica. Joey infatti reagisce con una consapevolezza che troppo spesso non vediamo rappresentata sul grande e piccolo schermo: conserva gli slip lacerati e insanguinati in una busta di plastica, racconta tutto alla madre, va in terapia, intraprende vie legali, infine riparte dal suo amore per la danza. Il successivo confronto con un’altra vittima di stupro, rimasta in silenzio per paura dei giudizi altrui, è toccante perché mostra due reazioni diverse allo stesso trauma, ma entrambe ricche di umanità e dolore. Sia chiaro, la serie non ha un atteggiamento critico verso chi non denuncia le violenze: il problema è la mentalità colpevolizzante che troppo spesso riduce le vittime al silenzio.
Anche in virtù della sua lucidità, Grand Army ritrae l’adolescenza urbana in modo piuttosto concreto e verosimile. Gli adolescenti della serie ascoltano podcast sull’empowerment, guardano stand up comedian femministe, sono immersi fino al collo nelle ambizioni e nelle ipocrisie della woke culture newyorkese. In altre parole, vivono davvero nel mondo là fuori, o quantomeno nella realtà circoscritta di una metropoli. Una realtà – quella americana – che paradossalmente incespica negli stessi meccanismi finalizzati a renderla più egualitaria e produttiva. Quando Dom fa il colloquio per un tirocinio e deve spiegare le sue motivazioni, decide di raccontare alle intervistatrici la sua difficile situazione economico-familiare, ma non prima di aver chiesto il permesso di “essere vulnerabile” con loro («Can I be vulnerable with you?»). Negli Stati Uniti, il privato è qualcosa di scabroso, da tenere nascosto per non mettere in imbarazzo il prossimo e non mostrarsi deboli. Non a caso, il sistema scolastico americano incoraggia la competizione su ogni livello, e persino il coming out di Sid rientra parzialmente in una strategia competitiva.
Il punto è che Grand Army rappresenta l’attuale società americana con una fedeltà quasi sconveniente, ed è forse per questo che la critica locale non l’ha amata. Volente o nolente, Katie Cappiello e gli altri autori raccontano una realtà che demolisce i giovani proprio quando si affacciano sul mondo: è vero, come suggerisce la stessa Anmiao Wu, che il personaggio di Leila rischia di trasformarsi nel cliché della dragon lady, ma tale metamorfosi è causata da fattori esterni, come l’incapacità di favorire la convivenza armonica tra culture; mentre Jayson è costretto a mettere a repentaglio il suo futuro per protestare contro l’espulsione dell’amico Owen, in un contesto dove sono sempre le cosiddette “minoranze” a pagare il prezzo più alto.
Per un pubblico abituato agli intrecci romanzeschi di Tredici, o alle vecchie atmosfere patinate di Gossip Girl e The O.C., Grand Army è una sana boccata di (relativo) verismo, dove le sopracitate accuse di poverty porn si scontrano con l’effettiva quotidianità dell’immigrazione. Scegliere di non raccontare certe dinamiche sociali sarebbe quantomeno ipocrita, e non servirebbe a farle sparire. La serie di Katie Cappiello non cade in questa trappola, e avrebbe meritato maggiore attenzione. Anche in virtù dei rischi che indubbiamente decide di assumersi.