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The Mandalorian 2: la recensione del quarto episodio, The Siege

Pubblicato il 20 novembre 2020 di Marco Triolo

Arrivati a metà della seconda stagione di The Mandalorian, siamo a quattro puntate su quattro scritte da Jon Favreau. È ovvio che il lockdown ha dato al creatore della serie il tempo per scrivere tutto e scriverlo bene. Perché siamo anche a quattro puntate su quattro di grande livello, forse un po’ calante la scorsa settimana (dove la missione non era poi così interessante), ma che torna ad alzarsi in questo episodio, The Siege (“L’assedio”).

La settimana scorsa la mitologia e la trama orizzontale facevano il loro ingresso in maniera prorompente, e questa settimana si replica, andando ancora più a fondo. Ma senza dimenticare che ciò che ci piace di The Mandalorian è che ogni avventura si regge in piedi da sola e poggia su grandi momenti di azione che non hanno bisogno dell’esposizione per funzionare.

Tornano, come avevamo anticipato Greef Karga (Carl Weathers) e Cara Dune (Gina Carano), insieme a Horatio Sanz nei panni di Mythrol (non lo vedevamo dalla primissima puntata della serie). Weathers stavolta si sdoppia, dirigendo l’episodio. L’attore ha una discreta esperienza, tutta televisiva, dietro la macchina da presa. E ha lavorato con Sylvester Stallone (nella saga di Rocky) e John McTiernan (Predator): conosce l’azione e dimostra di saperla anche girare molto bene.

Il che è piuttosto importante, in una puntata che parte come la “solita” missione laterale di Mando (che torna su Navarro per delle riparazioni, incontra i vecchi amici e accetta di aiutarli a far saltare in aria una base imperiale) e, a un certo punto, sfocia in un bellissimo inseguimento tra veicoli e velivoli che sfrutta al massimo l’immaginario di Star Wars (non manca l’imprescindibile canyon, anche se naturale). È il set piece centrale, quello per cui, se fossimo al cinema, avremmo pagato il biglietto. Ed è straordinario.

La trama orizzontale irrompe nella sequenza ambientata dentro la base nemica, dove c’è tempo per un breve ed efficace spiegone che ci dà finalmente una chiara idea di quali siano i piani di Moff Gideon (Giancarlo Esposito). L’ombra dell’Impero si fa sempre più fitta ed emerge chiaramente come l’idea giusta, al centro di tutto The Mandalorian, sia quella superare il manicheismo della classica trilogia di Star Wars per mostrare come una struttura capillare come l’Impero non potesse sciogliersi magicamente con la morte di Palpatine e la distruzione della seconda Morte Nera. L’Impero, che ancora non si chiama Primo Ordine ma poco cambia, è vivo e vegeto e ci sono dei leader che lo vogliono far risorgere e hanno un seguito non da poco.

In questa idea è possibile intravvedere anche una riflessione sul presente: la vecchia trilogia era un’allegoria della Seconda Guerra Mondiale concepita da uno dei figli del successivo boom economico, The Mandalorian è un’allegoria del presente pensata da un boomer. Un modo per raccontare l’eterno ritorno degli estremismi a cui stiamo purtroppo assistendo. Le mele marce non muoiono mai, strisciano sul fondo aspettando il momento giusto per riemergere (metafora un po’ confusa, ma ci siamo capiti).

Ma forse è voler leggere troppo in un’opera che prima di ogni altra cosa è sano divertimento, cioè quello che Star Wars dovrebbe sempre essere. Sparatorie, duelli, esplosioni, mostri, astronavi, set incredibili, personaggi carismatici. Un pacchetto che finora non ha deluso.

L’ORA DEGLI SPOILER!

Come sempre, diamo uno sguardo un po’ più approfondito alle questioni emerse nella puntata. La scoperta che la base imperiale non solo non è abbandonata, ma non è nemmeno un avamposto militare, quanto piuttosto un laboratorio, è il colpo di scena più importante della stagione finora. Finalmente, grazie all’ologramma del dottor Pershing (Omid Abtahi), abbiamo capito a cosa servisse Baby Yoda: raccogliere il suo sangue, ricco di Midi-chlorian, per creare in laboratorio dei soldati capaci di controllare la Forza. Dei Sith artificiali, se vogliamo, e quelle armature che vediamo alla fine di sfuggita, nella scena in cui finalmente ritroviamo anche Moff Gideon, col ghigno di chi se la sente caldissima, evocano palesemente il buon vecchio Darth Vader.

Mi spingo quasi a dire che, forse, questa rinascita sotterranea dell’Impero era quello che avrebbe dovuto raccontare la nuova trilogia, anziché gettare nella mischia una sua replica comparsa dal nulla. Forse è stato capito dopo, di certo lo ha capito Jon Favreau, che sta manovrando il tutto con la consapevolezza di aver appena scoperto una vena d’oro, la fusione fredda, la teoria del tutto, quello che preferite.

Vi lascio con questa riflessione: vedere il mento di Pedro Pascal è quasi pornografia, in una serie che finora ha rivelato il volto del suo protagonista una sola volta. Nella scorsa puntata abbiamo appreso che Din Djarin fa parte di una setta di zeloti e che il resto dei Mandaloriani non si fa problemi a togliersi il casco. È ovvio che da questa settimana sono iniziate le prove generali per farci abituare all’idea che vedremo più spesso la faccia di Mando.

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