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After Life, un rimedio all’idiozia: la recensione in anteprima della stagione 2

Pubblicato il 20 aprile 2020 di Lorenzo Pedrazzi

Ricky Gervais è una voce dissonante nello showbiz contemporaneo, una sorta di virus – perdonate l’infelice metafora – nel sistema codificato dell’intrattenimento. Il suo monologo di apertura agli ultimi Golden Globes lo dimostra: il comico inglese non ha filtri, e nega ogni retorica buonista legata allo star system e ai suoi “messaggi” edificanti, optando per un realismo che è cinico solo in apparenza. After Life, in tal senso, è il manifesto più limpido del suo credo, e Tony la rappresentazione più esacerbata della sua natura.

La premessa della serie consente infatti a Gervais di esprimersi al meglio: Tony, disperato per la morte della moglie, si sente libero di dire e fare quello che vuole perché tanto non ha nulla da perdere, e può sempre togliersi la vita se il dolore diventa insopportabile. Questo “superpotere” (per citare la sua espressione) lo sgrava dalle regole della buona convivenza sociale, fatte di bugie bianche e quieto vivere. Alla fine della prima stagione, però, Tony si rende conto che questo atteggiamento è deleterio, e i suoi cari ne pagano le conseguenze. Sceglie quindi una condotta ben più costruttiva, aprendosi agli altri per valorizzarne le qualità e diventare una presenza affettuosa nelle loro vite.

La seconda stagione riparte da qui. Tony cerca di comportarsi in modo zen, ma non è facile: il dolore è ancora presente, e il suo lutto gli impedisce di cominciare una relazione con l’infermiera di suo padre. Inoltre, gli zotici e i prepotenti non mancano mai attorno a lui, mettendo a rischio il suo approccio zen. La necessità di salvare il quotidiano locale in cui lavora gli offre però un nuovo obiettivo, utile per se stesso e per gli altri.

I primi tre episodi – quelli che ho potuto vedere in anteprima – mostrano proprio l’incrinarsi del “nuovo” Tony, ma anche i suoi sforzi per non tradire se stesso. Non a caso, la celebre favola di Esopo della rana e dello scorpione viene applicata alla sua vita in modo imprevedibile: Tony non è lo scorpione (che non può fare a meno di “pungere” gli altri), bensì la rana, creatura sensibile che non si capacita di come il prossimo possa pungerla. Nonostante il suo atteggiamento volenteroso e propositivo, le carogne continuano a esistere, e Tony dovrà sempre avere a che fare con loro. Di fatto, After Life è un urlo di guerra contro le diverse forme di ignoranza che affliggono il mondo, e delle quali Ricky Gervais ci offre un quadro sintetico ma esaustivo. Nelle tre puntate in questione riscontriamo la boria del regista teatrale, la mascolinità tossica dello psicoterapeuta, la bigotteria e l’antiscienza della collega d’ufficio: residui culturali di epoche (teoricamente) passate, ma ancora vive e attive nel nostro presente.

Il “superpotere” di Tony gli consente di dare voce al suo disgusto interiore senza le briglie del politicamente corretto, ascoltando quel lato intollerante che fa parte di lui (e di tutti noi). I dialoghi di Gervais non risparmiano nulla, comprese quelle punte di body shaming che purtroppo erano considerate accettabili nel cinema e nella televisione di qualche anno fa; la differenza è che il comico inglese le rivolge anche a se stesso, dimostrando una spietata autoconsapevolezza sotto ogni punto di vista. Il suo, però, è un raro esempio di disincanto costruttivo. Il ribrezzo di Gervais per il mondo non è un’accettazione compiaciuta, bensì uno stimolo a trovare soluzioni alternative. L’evoluzione di After Life è emblematica, in tal senso: Tony capisce che l’altruismo e l’empatia sono l’unico modo per rendere sopportabile la propria esistenza e quella degli altri. Anzi, se consideriamo il machismo dello psicoterapeuta come polo opposto dello spettro, il lavoro che Tony compie su se stesso è una riflessione sull’identità maschile, e sul suo ruolo nella contemporaneità. Un ruolo che deve essere più introspettivo e autocritico, cosciente delle proprie fragilità ma capace di agire, di parlare ad altri uomini per sensibilizzarli rispetto alla mascolinità tossica. Per Tony non è una missione, è semplicemente il suo modo di essere: la scena nel pub, quando cerca di dissuadere Matt dall’abbordare due donne che si stanno facendo i fatti propri, è molto significativa.

Come nella prima stagione, anche qui Gervais adotta una struttura narrativa semplice, però efficace nella sua trasparenza. Ogni episodio si risolve in una peregrinazione fra quattro/cinque luoghi topici (la casa, la redazione, la tomba della moglie, l’ospizio del padre…), ognuno dei quali è caratterizzato da incontri fissi. A seconda dei personaggi con cui parla, Tony “cresce” o scivola nelle vecchie abitudini, ma scopre quasi sempre un lato nuovo di se stesso. Le interviste per il giornale non fanno altro che arricchire questo bizzarro microcosmo di condizioni umane, dove il desiderio di apparire sul quotidiano è sostanzialmente un grido d’aiuto: ognuno vuole essere ricordato, sfuggendo alla desolazione della propria solitudine. Spesso è un modo per elaborare un lutto, processo che sembra inattuabile per Tony, incapace di superare la sua perdita. Chiamare la serie After Life, per uno come Gervais che non crede all’aldilà, è già di per sé un’azione politica: la vita è qui e ora, nonostante la barbarie del mondo e il vuoto pneumatico degli amori perduti. Tony non si fa troppe illusioni, ma quantomeno cerca di trasformare il dolore in resilienza.