Che sia proprio Greta Gerwig a riportare Piccole donne sul grande schermo non è certo casuale, soprattutto in rapporto al suo percorso artistico e all’attuale clima politico di Hollywood. I numerosi adattamenti cinematografici, teatrali e televisivi dimostrano il valore di un’opera in continua evoluzione nell’immaginario collettivo, a cui ogni generazione attribuisce il proprio significato e il riflesso delle proprie battaglie: così, Greta Gerwig ne scrive di suo pugno la sceneggiatura per ricordarci quanto il romanzo di Louisa May Alcott abbia ancora un peso nella formazione di una giovane donna, modellandone al contempo il racconto sul linguaggio del XXI secolo (e quindi sui tempi e i modi di un cinema che corre veloce, scarta all’improvviso e valorizza i tratti di modernità nella tradizione “classica”).
Il suo film, in effetti, ha il passo rapido e leggero dell’adolescenza, età irrequieta che le sorelle March affrontano ognuna a modo proprio. La centralità di Jo – stavolta “doppio” della regista, oltre che dell’autrice – viene chiarita fin dalla prima inquadratura, ma Gerwig amalgama le vicende delle quattro sorelle in una narrazione compatta che sintetizza sia Piccole donne sia Piccole donne crescono: l’andamento non-lineare del copione permette infatti di saltare avanti e indietro nel tempo, con deviazioni imprevedibili che costruiscono gradualmente il senso della trama. Ne deriva un linguaggio fresco e scattante, come i siparietti giocosi tra Jo e Laurie, in grado di trascinare lo spettatore dentro la storia con crescente forza centripeta; ma, al contempo, non disdegna sprazzi da elegante period drama, come nella splendida scena degli aquiloni sulla spiaggia.
Gestendo la prossemica degli attori con gran perizia, Greta Gerwig dimostra un’acuta comprensione del mondo dell’adolescenza, poiché sa bene che la base dei rapporti sociali – soprattutto in pubertà – risiede nel contatto fisico, nella danza dei corpi che si attraggono e si respingono nello spazio. Il suo Piccole donne è giocato proprio su questo: personaggi che si avvicinano e si allontanano, si cercano l’un l’altro o si ripudiano, musicati dalla deliziosa colonna sonora di Alexandre Desplat e abbracciati dalla calda fotografia di Yorick Le Saux.
In tale contesto, l’interpretazione sofferta e viscerale di Saoirse Ronan è il mezzo attraverso cui la cineasta lancia il suo grido di emancipazione e autodeterminazione (esemplare il monologo in soffitta), ma le quattro sorelle rappresentano per lei altrettanti modi di essere donna, tutti parimenti legittimi e meritevoli di rispetto. Come quattro dita di una mano – il quinto potrebbe essere Laurie, cui Timothée Chalamet infonde una goffa delicatezza che riecheggia la sensibilità delle ragazze March – esse si aprono a ventaglio, si separano e si riavvicinano, ma senza lasciarsi dividere dalle reciproche differenze.
Nell’era post-MeToo, fra numerosi esempi di pinkwashing imposti freddamente dall’alto, Hollywood trova in Greta Gerwig un’autrice che non ha bisogno di esprimersi per proclami didascalici, ma interiorizza lo sguardo femminista con la naturalezza di chi ci crede davvero, sul modello di alcune colleghe europee. Dopo l’exploit di Lady Bird, Piccole donne è la prova definitiva del suo talento.