Abbiamo deciso di accogliere l’arrivo di The Mandalorian, la serie targata Disney+ ambientata nella Galassia lontana lontana, con una recensione a catena, che ci accompagnerà per tutta la stagione e vedrà la partecipazione di autori come Roberto Recchioni, DocManhattan, Nanni Cobretti e molti altri.
Iniziamo, appunto, con la recensione dei primi due episodi, scritta da Roberto Recchioni e accompagnata da una illustrazione esclusiva.
di Roberto Recchioni
Se Star Wars fosse uscito più tardi, quando il termine “post-moderno” fosse ormai stato sdoganato nella cultura di massa, il nome di George Lucas sarebbe citato sempre accanto a quello di Quentin Tarantino, Brian De Palma e Tiziano Sclavi. Perché dentro il primo Star Wars c’è un poco di tutto, pescato dai ricordi e dalle passioni del suo creatore, seguendo un filo che è quello del cinefilo nerd incallito da una parte (alla maniera di Tarantino, appunto) ma pure nel modo nostalgico, tra sogno e ricordo, di un Fellini d’annata.
Ci troviamo Dune, ovviamente, il capolavoro letterario di Frank Herbert ambientato sul sabbioso pianeta omonimo. E poi c’è un altro capolavoro, ma fumettistico, che è il Flash Gordon di Alex Raymond, esplicitato con chiarezza solamente in Episodio I ma presente, in una forma o nell’altra, in ogni capitolo della saga. Ci sono i film ambientati nella Seconda Guerra Mondiale, con un occhio di riguardo per le scene d’infiltrazione di Dove osano le acquile e i combattimenti aerei di Tora! Tora! Tora! e poi le pellicole di fantascienza di serie B degli anni ‘50 e i film di cappa e spada dei ‘40. E ancora, i chambara movie giapponesi, quelle storie di samurai rese celebri nel mondo da Akira Kurosawa (e la citazione-omaggio de La fortezza nascosta nel primo Star Wars al limite del plagio). E, infine e naturalmente, ci sono i western, tanto quelli classici di John Ford (impossibile non notare tutti i riferimenti a Sentieri Selvaggi disseminati nella saga galattica di Lucas) quanto quelli moderni, revisionisti , o esotici, come un certo tipo di pellicole realizzate da autori italiani come Sergio Leone e Sergio Corbucci (esplicitate poi nel nome di un personaggio chiamato Jango Fett, dove la “D” è muta). È quindi da ritenersi una sorpresa il fatto che Jon Favreau e Dave Filoni, nel concepire la serie televisiva di The Mandalorian, abbiano tirato fuori uno spaghetti western misto al Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah, misto al manga di samurai, Lone Wolf and Cub?
Non direi proprio. Anzi, è la cosa più ovvia e prevedibile che potesse succedere, data la natura “back to basic” di tutta l’operazion, imposta da Jon Favreau.
Ma, andiamo con ordine. Chi è Jon Favreau?
In tempi recenti e nella cultura di massa, è solamante Harold “Happy” Hogan, la guardia del corpo di Tony Stark e il nuovo fidanzato di Zia May, una faccia simpatica ma poco di più.
In realtà, Favreau è parecchio di più.
Come attore, si è sempre ritagliato ruoli da commedia o da spalla comica, limitandosi a pochissime incursioni in parti più centrali e drammatiche. Che sceneggiatore ha sfornato una manciata di film di cui solamente il primo (Swingers) è stato in qualche modo significativo.
Come regista, invece, è in attività dal 2001 ma è dal 2008 che la sua vita cambia per sempre, perché è in quell’anno che dirige Iron Man, dando vita all’universo Marvel cinematografico e legando indissolubilmente il suo destino prima con la Casa delle Idee creata da Stan Lee e, conseguentemente, con la Disney, per cui realizza due pellicole campioni d’incassi come Il Libro della Giungla e, soprattutto, Il Re Leone. A quel punto potrebbe fare tutto. E decide di fare Star Wars. Alla sua maniera. Per la televisione. Distribuito su una piattaforma streaming che deve essere ancora lanciata. Nasce così The Mandalorian, che è uno show creato da una personalità che, con gli anni, ha saputo ottenere in maniera discreta, un potere e una libertà d’azione senza pari e che ha deciso di sfruttarla per un progetto del cuore.
E che forse è proprio per questo che è venuta così bene.
Perché The Mandalorian non è altro che uno Star Wars privo di tutti quei compromessi dettati dalle ricerche di marketing che sono imposte alle grande produzioni cinematografiche, anche a quelle di un colosso come la Disney.
È lo Star Wars che ogni vecchio fan di Star Wars ha sempre voluto vedere, quello che ci avevano convinto che non poteva più funzionare perché sorpassato dai tempi e che, invece, funziona ancora perfettamente.
La storia (per quello che ci è raccontato nelle prime due puntate) è quanto di più semplice si possa concepire: le avventure di un cacciatore di taglie Mandaloriano (una stirpe di umanoidi dediti alla guerra che ha dato i natali a Jango Fett, il “padre-modello originale” di Boba Fett) in una galassia lontana, lontana, tra intrighi, feccia criminale della peggior specie, droni e strane creature.
I rimandi culturali sono evidenti: gli spaghetti western di Sergio Leone (con un occhio di riguardo per Lo straniero senza nome interpretato da Clint Eastwood), il western revisionista di Sam Peckinpah (con una citazione a dir poco esplicita nel primo episodio) e di George Roy Hill (anche per lui una bella citazione diretta), il western classico di John Ford (l’atmosfera generale e un certo personaggio che rimanda ai tanti comprimari interpretati da Ward Bond nei film del maestro del cinema americano) e poi, le pellicole a base di samurai, in particolare la lunga saga (tratta dal manga omonimo) di Lone Wolf and Cub, che sembra regalare alla serie il meccanismo narrativo centrale. Ovverosia, una porzione davvero abbondante di quanto Lucas infilò in Star Wars alle sue origini.
Certo, non ci sono i Jedi. E manca quasi completamente lo spazio e le astronavi. Ma sapete una cosa? Va benissimo così. Anche perché Favreau, con la complicità di quel vero credente di Dave Filoni (uno dei pochi che, negli ultimi anni, ha saputo davvero tenere acceso lo spirito della trilogia originale con opere come Clone Wars, Rebels e Resistance), non solo si concentra sugli elementi e lo spirito originale, ma riporta anche in vita la grammatica del racconto e l’approccio visivo, inizialmente voluta da George Lucas per il primo film della trilogia. Il risultato è sorprendente perché The Mandalorian è più Star Wars di qualsiasi altro Star Wars sia mai stato fatto dai tempi del Ritorno dello Jedi. Il ritmo narrativo, le inquadrature, la luce, gli effetti speciali, le transizioni, tutti grida “TRILOGIA ORIGINALE” ma, sia chiaro, non nella maniera artefatta e un poco ruffiana tentata da J.J. Abrams, ma in un modo onesto. Qui non ci sono strizzate d’occhio allo spettatore consapevole, non c’è un distacco postmoderno dalla maniera trattata: Favreau crede nel materiale originale, lo prende seriamente, non ponendosi mai al di sopra di esso. È un professionista (talentuoso) che racconta una storia di Star Wars senza alcuna intenzione di reinventare la ruota ma, semplicemente, deciso a farla girare di nuovo. Un lavoro di un’onestà e di una purezza artistica disarmante, un esercizio di uccisione dell’ego portata avanti anche dagli attori, costretti tutti (tranne Werner Herzog e Carl Weathers) a recitare nascosti da un pesante make-up o con un casco in testa (in questo senso, un tributo speciale va reso a Pedro Pascal, che ha accettato una parte difficilissima per qualcuno con la carriera in rampa di lancio, dando una grandissima prova di recitazione fisica).
In conclusione, il primo episodio, scritto da Favreau e diretto da Filoni, si apre nella maniera più classica possibile per uno spaghetti western, prosegue come un film di John Ford e trova il suo apice in una sparatoria degna del Mucchio Selvaggio, portando anche in scena un droide bounty hunter che sarebbe davvero bello rivedere. Il controepilogo, apre alla trama vera e propria a fa capire dove la serie voglia andare a parare. Poche parole, molta atmosfera, una ragionevole dose d’azione. E tutto funziona a meraviglia.
Il secondo episodio, sempre scritto da Favreau ma diretto da Rick Famuyiwa (uno che roba d’azione non ne ha mai fatta prima ma a cui, sorprendentemente, viene benissimo) è ancora più estremo visto che è praticamente muto, si basa tutto su tre lunghi momenti d’azione e rende davvero palese il debito con il genere dei chambara movie. Ed è anche migliore del primo.
Per ora, non si può chiedere di meglio.