Prosegue la nostra recensione a catena di The Mandalorian, la serie targata Disney+ ambientata nella Galassia lontana lontana, che ci accompagnerà per tutta la stagione e vedrà la partecipazione di autori come Roberto Recchioni, DocManhattan, Nanni Cobretti e molti altri. Dopo i primi due episodi, recensiti da Roberto Recchioni e il terzo recensito da DocManhattan, tocca questa volta a Nanni Cobretti parlarci del quarto.
di Nanni Cobretti
La cosa più interessante di Mandalorian, in termini di come si piazza all’interno della strategia della macchina Star Wars, finora è il target. Dopo due trilogie che seguivano quella originale cercando contemporaneamente di ispirare nuove generazioni, e soprattutto dopo il backlash nei confronti di Episodio VIII che si sganciava dal passato in maniera troppo brusca e arrogante, ecco una serie che non è solo un semplice ritorno alle origini e ad alcune delle vecchie fonti di ispirazione di Lucas ma anche qualcosa di mirato a un target cresciuto, uno che presumibilmente è fan di lunga data in senso puramente anagrafico.
È il modo con cui Star Wars si rende conto che i suoi fans originali sono ancora vivi e rumorosi, e vanno accontentati/smorzati con una sana dose di familiarità e storytelling old school: il western dritto, l’eroe solitario/cazzuto/silenzioso/misterioso, le formule classiche, persino il tema musicale immediatamente fischiettabile.
È il vantaggio di essere sbarcati sullo streaming: ci si può permettere di diversificare, invece che dare ogni volta qualcosa che per incassare il giusto deve piacere all’intero pianeta contemporaneamente, generazioni passate e future. Del resto, ormai Star Wars è diventato quel tipo di colosso per cui se lo spin-off su Han Solo incassa $400 milioni viene considerato un frastornante flop, e se anche un film su Han Solo corre dei rischi e perde vuol dire che è il momento di cambiare gioco.
È anche il motivo per cui possiamo legittimamente aspettarci grandi cose da Disney+: deviazioni, esperimenti, Universo Espanso. Quello che avrebbero dovuto appunto essere gli spin-off al cinema, attualmente in pausa, e che un servizio streaming può ospitare con molto più relax.
Ma la cosa più importante di tutte è che, qualsiasi cosa Mandalorian (e ogni altro progetto futuro) decida di fare, la faccia bene.
È indubbiamente divertente che il regista di Cowboys & Aliens decida di tornare sul luogo del delitto del suo vecchio flop e riproporre esattamente lo stesso concetto (anche se era quell’altro ad avere Harrison Ford nel cast), anche se stavolta decisamente molto meglio delineato e semplificato.
C’è da dire che già la formula a episodi di mezzoretta aiuta tantissimo a rendere la narrazione agile e scorrevole, decisamente più piacevole di quanto ad esempio proposto da Marvel su Netflix, ma a parte questo c’è dietro un lavorone concentratissimo, un’idea chiarissima e una precisione assoluta sul tono da mantenere.
Roberto e Doc hanno già coperto ampiamente le chiare fonti di ispirazione di Mandalorian per quello che si è visto finora: i primi tre episodi ricalcano pari pari lo spunto di Lone Wolf & Cub, e propongono apertamente una versione intergalattica di quella che è l’intersezione tra i chanbara e i western, generi da sempre imparentati e più volte storicamente mescolatisi fra di loro.
Con il cacciatore di taglie Mando e il funko pop animato di Yoda finalmente in fuga da tutto e tutti, si può iniziare a spiccare il volo e delineare l’andamento per il resto della stagione, ed è qui onestamente che il quarto episodio inciampa nella prima piccola delusione: è davvero necessario, con i riferimenti mitologici/culturali ormai chiari come i due soli di Tatooine, riproporre il plot dei Sette Samurai / Magnifici Sette, il classico dei classici?
Mando incontra (finalmente) Gina Carano nel ruolo di “Cara Dune” (hahaha) e ne nasce (grazie al cielo) una tremenda scazzottata in cui a un certo punto il nostro eroe viene letteralmente ribaltato (whoa) da un papagno in fazza che gli dev’essere rintronato dentro al casco per almeno due giorni. Si riappacificano (grassa per lui) e insieme, cogliendo un’occasione per nascondersi in un luogo remoto e tirare un minimo il fiato, decidono di accettare un’offerta di ingaggio da parte di un gruppo di contadini spaziali oppressi da un AT-ST (nel ruolo della gang di banditi/messicani). Mando ricopre quindi i panni di Toshiro Mifune / Yul Brynner: Gina Carano è gli altri sei magnifici samurai tutti insieme.
Sia chiaro, tutto ciò non è gratuito: dietro tutte le scene prevedibili del caso (la riscoperta di uno stile di vita semplice e lontano dalla violenza, il rifiorire di sentimenti da tempo soppressi, l’addestramento) c’è la scusa per approfondire la mitologia del protagonista ed esplorare qualche dettaglio biografico importante che chiarisce il suo legame con Funko Yoda e il ruolo dei flashback fin qui disseminati senza troppe spiegazioni.
A proposito di Funko Yoda: è indubbio che si porta via ogni singola inquadratura in cui compare anche in un angolino sullo sfondo, e qui non ne parliamo, lo fanno pure interagire con un gruppo di bambini. È un gol a porta vuota che funziona nella sua più pura semplicità, ed è sempre più difficile mantenere l’ammirevole minimalismo e non trasformarlo in una macchietta alla Baby Groot – rischio in cui qui incorre in almeno un paio di occasioni.
Non fosse per lui, l’episodio sarebbe ovviamente divorato da Gina Carano, a cui viene data l’occasione di esibirsi nel suo mestiere (menare fortissimo) ma che sfoggia anche finalmente una decorosissima scioltezza nelle parti recitate che ai tempi dell’esordio con Soderbergh ancora non aveva. È il co-protagonista che la serie si merita, e che il cinema d’azione in genere deve riscoprire.
Dirige il tutto, curiosamente, Bryce Dallas Howard: esatto, la figlia del regista di Solo (semi-esordiente, nel curriculum registico finora solo cortometraggi o documentari).
Ora la speranza è che il prossimo episodio non veda Mando infiltrarsi in due gang rivali per metterle l’una contro l’altra e, dopo essere stato scoperto e pestato quasi in punto di morte, sconfiggerle entrambe.