Prosegue la nostra recensione a catena di The Mandalorian, la serie targata Disney+ ambientata nella Galassia lontana lontana, che ci accompagnerà per tutta la stagione e vedrà la partecipazione di autori come Roberto Recchioni, DocManhattan, Nanni Cobretti e molti altri. Dopo i primi due episodi, recensiti da Roberto Recchioni la settimana scorsa, tocca questa volta a DocManhattan parlarci del terzo.
di DocManhattan
Prendo la palla da Roberto e riparto proprio dal Giappone. Star Wars, diceva lui, ha sempre avuto un enorme debito nei confronti del cinema giapponese, sia direttamente, sia tramite la mediazione di tutto quello che c’era stato prima. Sappiamo quanto Kurosawa, e nello specifico La fortezza nascosta (Kakushi toride no san akunin) abbiano influenzato il trentenne di nome George Lucas, con un passato di Bianchine di Fantozzi custom sfasciate nella sua Modesto, California (true story). Tanto che a Oriente la saga tornerà a guardare più volte, con tanto di citazioni esplicite, come l’episodio di Clone Wars “The Bounty Hunters”, ispirato a I Sette Samurai. E parlando di cacciatori di taglie, The Mandalorian completa il cerchio. Il suo protagonista, il Mandaloriano senza nome e ancora senza volto interpretato da Pedro Pascal, è un classico antieroe da western alla Leone, uno straniero finito in un luogo dimenticato da Dio, dagli uomini e dai venditori di aspirapolveri e che si trova a dover difendere gli indifesi. A diventare un eroe. Ma pure quei personaggi lì, con gli occhi a fessura del buon vecchio Clint, venivano dal cinema giapponese. Quello che il mondo avrebbe conosciuto con l’improprio termine di spaghetti western altro non era che una rilettura, calata nella frontiera americana, di altri film giapponesi. Meglio, di altri film di Kurosawa. Per un pugno di dollari, il capolavoro da cui tutto è partito, nasceva pur sempre come plagio in economia de La sfida del samurai (Yojinbo). Kurosawa e il fedele Mifune erano arrivati prima, prima di tutti.
Jon Favreau e Dave Filoni sono partiti da lì, dalla figura dell’eroe solitario da jidaigeki/spaghetti western, e l’hanno tradotta in un’ambientazione fantascientifica. Tanto, a parte le razze aliene e i jetpack, i villaggi di frontiera e i locali pericolosi si somigliano un po’ tutti. Ma vista la storia, visto quello che racconta in questi suoi primi tre episodi, vista la strana coppia di suoi protagonisti, il pensiero non può che correre a un altro spicchio di immaginario nipponico che Roberto citava giustamente nel suo pezzo, una settimana fa. Quel Lone Wolf and Cub nato dal manga Kozure Okami, di Kazuo Koike e Goseki Kojima e diventato una lunga serie di film e trasposizioni televisive, una delle quali ha furoreggiato sulle reti private italiane con il titolo di Samurai, dicevamo qui.
Cosa c’entri The Mandalorian con Samurai non lo dico, perché se ancora non avete visto la serie e siete rimasti fortunosamente al riparo dagli spoiler piovuti sui social, non sarò io a guastarvi la festa. Quella coppia di personaggi crea tutta una selva di punti di domanda sulla testa dello spettatore, spingendolo alla fine del primo episodio a precipitarsi a controllare l’esatta collocazione temporale della serie Disney+ (11ABY, acronimo di “After the Battle of Yavin”: ovverosia 11 anni dopo Episodio IV e circa 7 anni dopo la fine della trilogia originale). Ma quello che ti ha colpito di più, al di là della sorpresa che chiude la prima puntata, è la gestione della stessa. Le dinamiche che si innescano tra il Mandaloriano e la sua “taglia” sono perfette per farlo diventare altro, per trasformare il freddo cacciatore che vediamo all’inizio in qualcosa di diverso. O farlo semplicemente affiorare da sotto quel casco che non si toglie mai. È il genere, del resto, che glielo impone. Il ronin Sanjuro di Yojinbo, il pistolero di Eastwood, Mad Max e tutti gli altri, accomunati dallo stesso, identico destino: esser sottratti alla vita di fatti propri ai quali volevano badare, e ritrovatisi senza volerlo a fare la cosa giusta, a combattere per chi ha bisogno di loro.
C’è questo dialogo nel terzo episodio, questo momento in cui il Mandaloriano definisce “l’altro” un nemico. Un nemico che lo ha aiutato, nell’episodio precedente. Perché nella vita di chi segue solo una sequenza di missioni di caccia all’uomo, il tutto si è finora risolto in un sistema binario di preda e predatore. “Questa è la via”, ripetono gli altri Mandaloriani. È così che funziona. Ma ogni samurai e pistolero e sopravvissuto postapocalittico solitario del genere, indipendentemente dall’ambientazione e dal contesto, ha un punto debole che lo spinge a cambiare obiettivo. Che gli dà una missione. Il Mandaloriano ha evidentemente un debole, determinato dal suo passato. Un passato che viene raccontato senza spiegoni, mediante pochi, semplici ed efficaci flashback muti.
Sono proprio i silenzi un elemento forte di The Mandalorian, che lo ancora alle sue radici chambara/western, e che mette in risalto la versatilità e la bravura di Jon Favreau. L’uomo che ha dato il calcio d’inizio all’universo cinematografico Marvel, interprete di Happy Hogan e altri personaggi cazzoni, famoso per i film pieni di chiacchiere degli esordi (come lo Swingers preso per i fondelli da Chris Moltisanti in tutta una storica puntata de I Soprano. Guest star: lo stesso Favreau, ovvio), abile nel dosare pure i silenzi, nel gestire le fonti d’ispirazione in modo onesto, senza strafare. Il che vale per i western di Leone, con tanto di nemici che cascano dai parapetti sulle case una volta centrati dal blaster del protagonista e di quel certo espediente narrativo applicato a Carl Weathers, e vale pure per Star Wars. La saga, l’universo, il peso che si porta dietro.
Se state leggendo spesso in giro, in questi giorni, che The Mandalorian è un ritorno alle origini per Star Wars, è perché, beh, è vero. È una storia che fa a meno di buona parte (ma non tutti) gli elementi cardine dei film della saga, si allontana dagli Skywalker – di cui, probabilmente, in quell’angolo sperduto dell’ex Impero non hanno neanche sentito parlare – ma resta ancorata a quello che fa di Star Wars la saga che amiamo. L’avventura, le emozioni, le sorprese, il senso di eroismo, i cattivi, le corazze. E se c’è spazio per citare pure Indiana Jones, beh, meglio: facciamolo, si resta in casa. Astronavi poche, perché il racconto finora ha strisciato più che altro nella polvere e nel fango, per forza di cose, ma in seguito chissà. Ha ancora molte carte da scoprire, The Mandalorian, a cominciare dai volti di diversi dei suoi attori principali, che ancora non si sono visti (Gina Carano dovrebbe arrivare nella prossima puntata). Ma quel che è certo è che, settimana dopo settimana, quel giusto dosaggio, quei quaranta minuti concentrati, pieni d’azione, sparatorie e un sense of wonder mai così forte in quella galassia lontana lontana negli ultimi, boh, vent’anni e oltre, mi lasciano addosso una voglia di vederne ancora incredibile. Sulle note – bellissime – della sigla di coda, parte l’attesa per la puntata successiva. E alla fine, comunque vada, partirà un’altra attesa. Quella di vedere ancora produzioni simili. Altre storie, altri personaggi, altri pezzi del mito. La regista di questo terzo episodio, “The Sin”, è Deborah Chow, che per Disney+ si occuperà anche della serie su Obi-Wan Kenobi con Ewan McGregor. È stata scelta proprio per l’ottimo lavoro fatto con The Mandalorian. Bene.
Basta che Favreau e Filoni li incateniamo alla cosa e non li lasciamo più andare via. Anche se non è al cinema, anche se sono diversi formato e tempi di fruizione, è questo lo Star Wars che abbiamo atteso a lungo. Sì, “questa è la via”.