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Sarò davvero molto breve.
La narrativa a bivi esiste da moltissimo tempo. Nel 1941, lo scrittore Jorge Louis Borge la ipotizza nel romanzo Esame dell’opera di Herbert Quain, prendendo spunto da alcuni “giochi letterari” che andavano di moda nella corte di Francia. Lord Byron si dilettò nel comporne alcuni. Il meccanismo ludico-letterario venne usato come strumento di apprendimento nella serie di libri interattivi TutorText mentre la cosiddetta “letteratura ad albero” venne esplorata dal gruppo letterario OuLiPo.
John Sladek, nel 1969, pubblicò una prima storia di fantascienza i cui paragrafi erano collegati da frecce multiple, per non parlare di Gianni Rodari e le sue Tante Storie per Giocare, una serie di racconti per bambini, letti alla radio, che permettevano agli ascoltatori di scegliere lo sviluppo e il finale. È però negli anni ’80 che il meccanismo ha la sua massima diffusione, prima con la serie di libri Tracker, poi con quella di The Adventures of You e di Choose your Own Adventure. I prodotti di questo tipo pubblicati in quegli anni sono semplicemente troppo per essere elencati in questo spazio, ne ricordiamo quindi solo il più amato in Italia (e nel mondo): Lupo Solitario.
Il meccanismo delle “storie a bivio” è diventato un elemento integrante dei videogiochi sia in maniera esplicita (per fare un esempio moderno: tutte le avventure della Telltale o i “film interattivi” della Quantic Dream come Detroit Become Human) sia in maniera implicita (ogni volta che un qualche gdr o un action propongono una scelta multipla narrativa). Lo stesso sistema è stato implementato in giochi da tavolo, spesso con l’ausilio di componenti video (Atmosfear il più noto) e, in tempi recenti, ha trovato una sua declinazione anche su YouTube (con vere e proprie narrazioni multiple). Se poi vogliamo rimanere dalle parti di casa nostra, nel 2016 Gabriele Mainetti realizzò uno spot per Renault che funzionava esattamente come un libro game, con tanto di finali multipli.
Ah, sì, c’è anche una recensione cinematografica fatta alla stessa maniera (da me) e la trovate QUI.
Perché questa premessa? Per far capire che l’unica cosa che non è “nuova” e non rappresenta il futuro dell’ultimo episodio di Black Mirror è proprio la sua natura a bivi che, anzi, appare molto primitiva nella sua implementazione (con soli cinque finali e una possibilità di agire sugli eventi molto, molto, limitata e superficiale) e piuttosto meccanica.
Se poi vogliamo vederla sotto il punto di vista “in questo modo Netflix impedisce la pirateria”, mi viene proprio da ridere. Sia perché, oggi, la pirateria sul web è ai suoi minimi storici a causa di leggi nazionali e sovranazionali e alla sempre maggiore diffusione di sistemi comodi, economici e legali per fruire i contenuti, sia perché mi sembra improbabile ipotizzare un futuro in cui tutti si metteranno a fare film interattivi per scongiurare il rischio di venir piratati, abiurando l’idea (importantissima per un creativo) di una visione artistica unica.
Quindi, a conti fatti, Bandersnatch, il nuovo episodio di Black Mirror, andrebbe per me valutato levando di mezzo tutto questo fumo negli occhi fatto di finta “innovazione” (oltretutto, non è il primo esperimento di narrazione a bivi nemmeno per Netflix che già aveva proposto cose simili nell’ambito delle produzioni animate per bambini). E allora com’è?
Insomma. Realtà parallele, viaggi nel tempo e roba vista e stravista nella fantascienza classica, solo raccontata con la ormai canonica spolverata di atmosfere anni ’80 (basta, non se ne può più) e zeppa di tante strizzatine d’occhio alla cultura videoludica del tempo che fu (sì, ho colto tutti i riferimenti e no, non me ne frega nulla di starli ad elencare per dimostrare di essere uno che la sa lunga di quella roba). Un episodio che si incastona tra i meno interessanti e rilevanti della serie e che, se non fosse stato per il meccanismo a bivi, avrebbe suscitato più che altro noia e perplessità.
Come avevo preannunciato, sono stato breve.
Ma proprio perché non c’era molto da dire.
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