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Un uomo cammina sul ciglio della strada, chiedendo l’autostop su una statale ancora piena di familiari anni 70 con fiancata finto legno. La musica al piano, tristissima, si intitola non a caso “The Lonely Man”. È il finale, all’incirca, di ogni episodio de L’incredibile Hulk, la serie TV del ’78, nata dalla mente creativa di un uomo a cui dei super-eroi piaceva solo… beh, niente.
È il 1977. Frank Price, capoccia del ramo televisivo della Universal, offre a Kenneth Johnson carta bianca per portare sul piccolo schermo uno dei tanti personaggi Marvel di cui la major ha opzionato i diritti. Problema: a Johnson, produttore de L’uomo da sei milioni di dollari e La donna bionica (e in futuro, tra le altre cose, regista di Corto Circuito 2) i super-eroi non piacciono per niente. Li reputa stupidi. Dopo aver rifiutato, però, cambia idea: sta leggendo I miserabili di Victor Hugo e crede si possa cavare qualcosa di interessante dalla figura drammatica di Hulk. Basterà cambiare… beh, tutto.
Per prima cosa, cambiano leggermente le origini e cambia il nome dell’eroe, perché a Johnson non va giù quella storia di nomi e cognomi allitterati, marchio di fabbrica usato da Stan Lee per raccapezzarsi meglio tra mille personaggi: Bruce Banner diventa così David Banner, in onore del figlio di Johnson. I vertici del network fanno pressione affinché quel Bruce scompaia del tutto nella serie, ritenendolo “troppo gay” (don’t ask), ma resta come secondo nome dello scienziato. Il dottor David Bruce Banner, allora, come si legge sulla finta lapide nella sigla di testa: uno scienziato il cui alter-ego mostruoso è molto meno forte rispetto ai fumetti, alle prese con minacce di minor profilo. E non parla.
Johnson non vuole un mostro che si esprima in terza persona, come su carta, perché in TV non funzionerebbe. Ne parla con Stan Lee, e il Sorridente capisce che lo showrunner ha ragione: niente “Hulk spacca!”. Solo che Johnson, già che si trova, vorrebbe cambiare anche il colore della creatura. Precorrendo i tempi rispetto a quanto accadrà anni dopo nel Marvel Universe, vuole un Hulk rosso, dello stesso colore della rabbia. E lì il vecchio Stan non sorride più e fa presente che ok, va bene tutto per prendere i soldi della TV, ma il colore di Hulk non si tocca.
Se Bill Bixby è sin dal primo momento la scelta di Johnson per il ruolo di David Banner, per Hulk fa un provino un allora sconosciuto ai più Arnold Schwarzenegger. Ma il futuro Terminator e governatore è alto solo uno e ottantotto, non basta. Viene scelto così Richard Kiel, attore altissimo (2 metri e 18)… ma non abbastanza piazzato. È il figlio di Johnson a far notare al padre, a riprese già in corso, che l’altezza c’è, ma il fisico per niente. Dopo aver girato alcune scene con Kiel – visibili per pochi istanti nell’episodio pilota – alla fine si opta per un altro culturista. Il suo nome è Lou Ferrigno ed è diventato un colosso perché da bambino tutti lo prendevano in giro per i suoi problemi all’udito.
Provate a sfotterlo ora, bulli delle medie.
Bastano tre ore di trucco, un paio di lenti a contatto rigide scomodissime e una parrucca in pelo di yak tinto per renderlo un’icona pop della televisione, a cavallo tra la fine degli anni 70 e l’inizio del decennio successivo. Dopo la messa in onda del primo episodio, il 4 novembre del ’77, Hulk è per tutti, e lo rimarrà almeno fino al film di Ang Lee del 2003 – in cui Ferrigno appare in un breve cameo – un culturista di origini italiane che gonfia i bicipiti e ringhia a favore di camera.
L’incredibile Hulk, puntata dopo puntata, vive la sua vita da remake spirituale de Il fuggiasco (The Fugitive): Banner cambia ogni volta nome e identità, aiutando le persone, prendendo in prestito i panni appesi ad asciugare dopo aver distrutto i pantaloni numero 567, e sfuggendo alle attenzioni di un giornalista rompiscatole, ideato da Johnson perché… sì, esatto, quello che c’era nel fumetto non gli piaceva. Terminata la serie, nell’82, Johnson passa agli alieni mangiatopi di Visitors. Bixby e Ferrigno vanno invece avanti, con il loro Hulk in multiproprietà, con tre film per la TV.
Nel primo, La rivincita dell’incredibile Hulk (The Incredible Hulk Returns, 1988), la guest star è Thor. Un dio del tuono interpretato da Eric Allan Kramer (Little John in Robin Hood – Un uomo in calzamaglia), con le spalle coperte da pelliccia di pecora. Lo zampognaro di Asgard.
Ben più interessante il secondo film televisivo, Processo all’incredibile Hulk (The Trial of the Incredible Hulk, 1989), diretto dallo stesso Bixby. Ad affiancare il Golia Verde è stavolta Daredevil (il Rex Smith di Street Hawk – Il falco della strada). Ci sono anche Kingpin (John Rhys-Davies) e, in un cameo come giudice, Stan Lee. Il terzo film TV, La morte dell’incredibile Hulk (The Death of the Incredible Hulk, 1990), è un’assurda storia di spionaggio internazionale. Il finale vede Banner liberarsi della maledizione di Hulk… morendo, appunto. Era tuttavia già in programma un altro lungometraggio, La vendetta dell’incredibile Hulk, ma il progetto venne abbandonato. Non per le condizioni di salute di Bixby (che morirà di cancro nel ’93), come si legge spesso in giro, ma più banalmente perché gli ascolti de La morte dell’incredibile Hulk erano stati terribili.
Era un tipo di TV molto caro a Johnson, quello de L’incredibile Hulk, e poco importava se gli stessero sulle scatole i fumetti con la gente che si mena. Il suo Hulk era diverso ma in fondo uguale agli altri suoi personaggi: un eroe problematico che fingeva di essere una persona normale, veniva travolto dagli eventi, diventava una bestia furiosa, in fondo aiutava tutti perché buono. Un camionista collerico in una tangenziale piena di traffico, però verde.
Ci piace ricordarlo così, il suo Dottor Banner: di nuovo mansueto, vagamente confuso e con i pantaloni in brandelli, dopo aver piegato per tre quarti d’ora delle sbarre di finto acciaio, agitando i capelli in pelo di yak al rallentatore. E poi via, a fare l’autostop sulla statale con la musica triste; verso una nuova storia, una nuova identità, un nuovo nome. Che poi era sempre David seguito da un cognome che iniziava comunque per B.
Scienziato sì, ma fino a un certo punto.
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