Da Lo Chiamavano Jeeg Robot a RIDE, la rinascita del cinema italiano

Da Lo Chiamavano Jeeg Robot a RIDE, la rinascita del cinema italiano

Di Filippo Magnifico

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Cos’è il cinema italiano?La risposta potrebbe sembrare semplice ma in realtà non è così.
C’è stato un periodo, neanche troppo lontano, in cui gran parte del nostro cinema rincorreva quella che si potrebbe definire “qualità standard”. Accanto alle immancabili commedie (che comprendevano anche i tanto odiati e amati cinepanettoni) c’erano i film più impegnati, che il più delle volte raccontavano drammi di provincia a base di disoccupazione e paura per il futuro. I cosiddetti “film da festival”, che sembravano aver stabilito dei confini all’interno dei quali il cinema italiano non poteva uscire.
Era quello, solo quello, nessuno voleva fare altro.
Questa, almeno, era l’impressione, perché in realtà, a guardare bene, la voglia di fare qualcosa di diverso c’era, quello che mancava era il coraggio dei produttori, poco disposti ad investire in prodotti che si allontanavano dalla “qualità standard”.

Era un cinema cristallizzato quello italiano, immobile e comodo su quel piedistallo che lui stesso aveva creato. Ma prima non era così. A cavallo tra gli anni ’70 e 80 (in realtà anche prima), il nostro cinema era una vera e propria fabbrica di generi. Un periodo caratterizzato da un fermento fuori dal comune, che si potrebbe riassumere in tre semplici parole: voglia di fare.

Diabolik, diretto da Mario Bava nel 1968. Il primo grande cinecomic italiano.

In quegli anni sono state sfornate pellicole ad un ritmo vertiginoso. Opere girate in pochi giorni, solitamente con mezzi di fortuna e sulla scia di altri titoli famosi, ma che nel loro piccolo sono riuscite a lasciare un segno, influenzando, soprattutto oltreoceano, cineasti che oggi sono considerati veri e proprio maestri. È questo il caso di nomi come Mario Bava, Lucio Fulci e Umberto Lenzi, che hanno ispirato cineasti come Martin Scorsese, Tim Burton e Quentin Tarantino.
Era un cinema che non aveva paura, soprattutto di mettersi in gioco, che rielaborava le caratteristiche delle produzioni “commerciali” a stelle e strisce rendendole proprie. Se prendiamo in considerazione Mario Bava, ad esempio, lui da solo ha: 1- Gettato le basi del genere slasher con titoli come Reazione a catena e Sei donne per l’assassino; 2- Ispirato Alien (anche se nessuno lo ammetterà mai) con il suo Terrore nello spazio; 3- Girato cinecomic “before it was cool” (il riferimento è ovviamente a Diabolik).

Il coraggio di osare, però, ad un certo punto è scomparso, non si conosce bene il motivo ma basta dare un’occhiata alla strada percorsa dal nostro cinema per rendersene conto.
Ad un certo punto ci siamo trovati sommersi da grandi film che allo stesso tempo avevano piccole ambizioni, se non quella di diventare “film da festival” secondo l’accezione più antica che questa definizione può assumere. Sembrava impossibile uscire da questo torpore, poi, improvvisamente, qualcosa è successo.

Lo chiamavano Jeeg Robot, il film della svolta.

A partire dal 2014 abbiamo assistito a quella che si può benissimo definire la rinascita del cinema italiano. Titoli come Smetto quando voglio, Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento e Mine, nomi come Sydney Sibilia, Gabriele Mainetti, Matteo Rovere, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro hanno dimostrato in maniera concreta che cambiare era possibile. E lo hanno urlato a tutto il mondo, portando sul grande schermo pellicole fresche, in grado di abbattere quei confini diventati troppo stretti per il nostro cinema.
I nostri schermi hanno accolto con gioia l’arrivo di pellicole in grado di strizzare l’occhio ai cinecomic, alle storie ad alta velocità, alle commedie d’azione, ai war movie (introspettivi), e con gioia ha reagito anche il pubblico, che si è trovato di fronte ad opere dal respiro internazionale, capaci di reggere il confronto con i maggiori blockbuster americani.

Quello che stiamo vivendo è un bel periodo per il cinema italiano, non ci sono dubbi. Negli ultimi anni sono arrivati sul grande schermo opere in grado di dimostrare che anche noi, se vogliamo, siamo in grado di competere con quello che ci propone il resto del mondo. E ora che questo percorso è iniziato sembra proprio che, come successo negli anni ’70 e ’80, siamo pronti per mettere da parte gli esempi da seguire per proporci come esempio, lanciando nuovi stili e nuovi linguaggi cinematografici.

RIDE, la sperimentazione di un nuovo linguaggio cinematografico.

È questo il caso di RIDE, il thriller su due ruote diretto da Jacopo Rondinelli e scritto, co-prodotto e supervisionato artisticamente da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro (i nomi dietro il già citato Mine). Un’opera sperimentale, destinata a lasciare un segno nel panorama cinematografico nostrano e non solo.
RIDE è il primo film realizzato sfruttando al massimo le potenzialità delle telecamere GO PRO e si preannuncia come uno spettacolo action senza precedenti, nostalgico, innovativo, per certi versi unico, come confermato dalla nostra recensione.

Rinato, il nuovo cinema italiano si appresta a diventare maturo, consapevole di se stesso e della sua importanza. Del resto, una volta iniziato questo percorso sarebbe stupido abbandonarlo. #RideOrDie recita la frase di lancio di RIDE ed è proprio questa l’attitudine che tutte le nuove leve del nostro cinema devono conservare.
Bisogna proseguire lungo questo percorso, senza mai tornare indietro, senza mai fermarsi, perché questo porterebbe ad una nuova – forse più dolorosa – morte artistica.
Quindi continuiamo a correre, perché siamo rimasti fermi per troppo tempo.

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