Twin Peaks – Parte 8: «Gotta light?»

Twin Peaks – Parte 8: «Gotta light?»

Di Lorenzo Pedrazzi

L’emancipazione di Twin Peaks dai canoni della serialità televisiva è apparsa chiara fin dal primo episodio di questo revival, ma trova compimento (definitivo?) nell’ottava parte della stagione, dando luogo a un capolavoro di straordinaria complessità formale e narrativa. È sorprendente che una cosa del genere sia riuscita a farsi strada tra gli ingranaggi spietati della produzione televisiva, e bisogna riconoscere a Showtime il merito (o l’incoscienza, ma non in senso spregiativo) di aver lasciato completa libertà a David Lynch, capace di (ri)costruire il suo mondo attraverso un processo di accumulazione sensoriale che, a partire da un’esplosione teoricamente distruttiva, finisce invece per generare “senso”.

Eppure, l’incipit dell’episodio si ricollega al finale della puntata precedente, in modo piuttosto lineare: Dark Cooper (Kyle MacLachlan) si allontana dal carcere con Ray, il quale però non ha alcuna intenzione di rivelargli le misteriose cifre che ha memorizzato (forse delle coordinate?), e di cui Dark Cooper ha un grande bisogno. La tensione fra loro è palese, soprattutto quando Ray si ferma per orinare e Dark Cooper gli punta un revolver alla schiena; Ray, però, aveva previsto tutto: l’arma infatti non funziona, lasciando Dark Cooper completamente vulnerabile all’attacco dell’avversario, che gli spara al petto con la sua pistola. A questo punto, però, dal buio emerge un gruppo di inquietanti figuri dall’aria spettrale, lerci e trasandati, simili all’individuo che abbiamo visto brevemente in una cella di Buckhorn. Questi figuri evanescenti – che poi scopriremo chiamarsi Woodsmen, “boscaioli” – praticano una sorta di rito sul corpo di Dark Cooper, scavando dentro di lui attraverso le ferite, imbrattandogli il viso e gli abiti di sangue, fino a estrarre lo spirito di BOB, il cui ghigno sadico è racchiuso in una specie di crisalide. Ray fugge e telefona a Jeffries (o all’uomo che ne ha assunto l’identità), altro misterioso individuo che brama lo spirito di BOB; gli dice che si sta dirigendo verso la “Fattoria”, e che Dark Cooper potrebbe aver ricevuto “un aiuto”, ma quello che ha visto potrebbe essere “la chiave di tutto”: insomma, Ray non è totalmente inconsapevole delle forze sovrannaturali che agiscono attorno a lui. Inoltre, il riferimento alla “Fattoria” rievoca la Dead Dog Farm della serie originale, teatro di molti traffici illeciti (soprattutto cocaina), dove Cooper fu tenuto in ostaggio da Jean Renault.

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Segue una performance dei Nine Inch Nails presso il Roadhouse, durante la quale Trent Reznor canta She’s Gone Away dall’album Not the Actual Events. Curiosamente, le parole del pezzo ricordano l’attività dei Woodsmen della scena precedente: “You dig in places ‘til your fingers bleed/Spread in the infection where you spill your seed”, ovvero “Scavi finché le dita non ti sanguinano/Diffondi l’infezione dove depositi il tuo seme”. Al contempo, però, la canzone anticipa il segmento successivo, quando l’episodio ci riporta al 16 luglio 1945, in New Mexico, nel momento esatto in cui gli Stati Uniti effettuarono il primo test nucleare della storia, dando inizio all’era atomica. È la svolta: da qui in poi, l’episodio diventa un’incredibile esperienza visiva e sonora che richiede attenzione e contemplazione. Ad accompagnare la scena dell’esplosione, immersa in un raffinatissimo bianco e nero, c’è Trenodia per le vittime di Hiroshima di Krzysztof Penderecki, brano già utilizzato da Kubrick in Shining, da Wes Craven ne La casa nera e da Alfonso Cuarón ne I figli degli uomini. L’inquadratura si avvicina lentamente al fungo atomico, ammalia lo sguardo e si fa Sublime, manifestando quel delightful horror – l’orrore che affascina – di cui parlava Edmund Burke in relazione alla natura; qui, però, l’effetto Sublime è originato dall’uomo, da una sua creazione artificiale, e questo lo rende ancor più spaventoso. È l’origine del Male, dove David Lynch mette in scena il suo personale Big Bang; non a caso, nell’ufficio di Gordon Cole c’è una foto che ritrae un’esplosione nucleare.

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La macchina da presa si spinge all’interno del fungo, e il “racconto” lascia il posto a un gioiello di animazione astratta, un’immersione sensoriale che ricorda inevitabilmente lo Star Gate di 2001: Odissea nello spazio, ma anche i poemi ottici di Oskar Fischinger e le riprese microscopiche dei documentari scientifici. Il caos della creazione trova sintesi in questa straordinaria sequenza, che poi sfocia nell’inquadratura fissa di una stazione di servizio, chiaramente “finta”: è uno di quegli edifici costruiti dal Progetto Manhattan per simulare gli effetti della bomba atomica su una cittadina, nei pressi del test nucleare. Le porte sbattono, una nube di fumo tenta di uscire, le luci si accendono e i Woodsmen cominciano a popolare l’interno e l’esterno della stazione. Il convenience store è un luogo iconico dell’immaginario americano, soprattutto in quella provincia che Lynch ama tanto rappresentare e decostruire, quindi la scelta dell’ambientazione non è certo casuale: Twin Peaks tende a corrompere proprio quei luoghi che, in genere, sono considerati rassicuranti perché fanno parte della quotidianità. La scena successiva, però, non ha nemmeno bisogno di appoggiarsi a un’ambientazione reale, poiché ci trasporta su un piano “metafisico” dove l’Esperimento (probabilmente la stessa creatura apparsa nel cubo di vetro a New York) vomita una sostanza che ricorda la Garmonbozia, all’interno della quale è contenuto un globo/seme/uovo che racchiude l’essenza di BOB, insieme ad altre uova maculate. L’impressione è quindi che BOB sia figlio della distruzione umana, il prodotto sovrasensibile di un processo terreno.

Part 8

Come immediata reazione a questa nascita, Lynch ci proietta in volo sulla superficie di un oceano, dove un castello metallico torreggia su un’isola rocciosa. All’interno, la Señorita Dido (Joy Nash) è in compagnia del Gigante (Carel Struycken), anche se i titoli di coda lo identificano come “????????“. L’architettura e gli arredamenti richiamano l’estetica steampunk (d’altra parte, Lynch ha sempre amato gli ambienti di natura industriale), ma il contesto muta radicalmente quando il Gigante si sposta in una vecchia sala cinematografica, attiva il proiettore con un gesto della mano e osserva sullo schermo l’esplosione del test nucleare, seguita dai Woodsmen e dall’Esperimento che espelle il seme di BOB. Probabilmente ci troviamo nella Loggia Bianca – il contraltare della Loggia Nera – e il Gigante scruta il mondo come farebbe un manutentore che sorveglia il suo macchinario di competenza: ne esamina il malfunzionamento e interviene per porvi rimedio. Questa, almeno, è la sensazione che si ricava non appena il Gigante comincia a fluttuare davanti allo schermo, partorendo dalla bocca un’aura dorata che contiene una sfera del medesimo colore, con il celebre ritratto di Laura Palmer incastonato al suo interno. La Señorita Dido – che ricorda vagamente la Ragazza del Radiatore di Eraserhead – riceve questo globo e lo “benedice” con un bacio, prima di lasciarlo fluttuare in un macchinario appeso al soffitto: il globo entra in un tubo che lo dirige verso lo schermo, dove compare un’immagine della Terra, ed entra nello schermo stesso per precipitare sul Pacific Northwest degli Stati Uniti, l’area geografica in cui si trova Twin Peaks. Anche qui, proprio come in Eraserhead, assistiamo all’intervento di creature “superiori” che operano dall’esterno sulla Terra, utilizzando macchinari apparentemente incomprensibili: in tal senso, sembra che Laura sia stata creata in risposta alla nascita di BOB, come sua nemesi o – più cinicamente – come “esca” per attirarlo allo scoperto.

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Di ritorno sulla Terra nel 1945, ci ritroviamo nel deserto del New Mexico, dove una delle suddette uova maculate attende undici anni prima di schiudersi. Il salto temporale ci porta infatti al 5 agosto 1956, e dall’uovo – forse giunto sulla Terra attraverso una frattura nella realtà causata dall’esplosione? – esce una strana creatura, per metà rospo (la parte inferiore del corpo) e per metà insetto (la parte superiore), con tanto di ali. Un ragazzo (Xolo Mariduen) e una ragazza (Tikaeni Faircrest) hanno appena trascorso la serata insieme, e lui la sta accompagnando a casa: prima di salutarsi, si danno un rapido e castissimo bacetto sulle labbra, poi la ragazza si rifugia nella sua stanza per ascoltare la radio. Intanto, nel deserto compaiono i Woodsmen, guidati da un uomo (Robert Broski) che tiene una sigaretta spenta tra le labbra, e chiede insistentemente se qualcuno ha da accendere («Gotta light?»). Il Woodsman raggiunge la stazione radio locale, che sta suonando la canzone My Prayer dei Platters, il cui chitarrista – ohibò! – si chiamava proprio David Lynch. Comunque sia, la receptionist viene aggredita dal Woodsman, che le schiaccia la testa con una sola mano; poi entra nella cabina del DJ, lo afferra per il cranio, toglie il disco e comincia a pronunciare ripetutamente queste parole: “Questa è l’acqua, e questo è il pozzo. Bevete a fondo e calatevi. Il cavallo è il bianco degli occhi e scuro all’interno”. Torna in mente il cavallo bianco (pale horse) visto in due occasioni da Sarah Palmer prima degli omicidi di sua figlia Laura e di sua nipote Maddie, come un presagio di morte. In ogni caso, le parole del Woodsman provocano lo svenimento di chiunque ascolti la radio, compresa la ragazza di prima, che resta distesa a letto priva di sensi. Il rospo-insetto entra nella sua camera e scivola nella sua bocca, mentre il Woodsman esce dalla stazione radio per scomparire nella notte, e un cavallo nitrisce proprio al termine dell’episodio.

Part 8

Gli echi di Eraserhead sono evidenti (il bianco e nero, i “creatori” sovraterreni, il dualismo tra la Señorita Dido e la Ragazza del Radiatore, quello tra l’insetto-rospo e il figlio-mostro), ma la puntata in questione, più che il frutto di una mente che cancella i nessi e nega ogni potenziale lettura simbolica, sembra invece nascere dall’esigenza di approfondire la mitologia di Twin Peaks per espanderne i confini, sia temporali sia (meta)fisici. Trova conferma, però, il ruolo dell’immagine come “spazio selvaggio rispetto alla parola” (si veda Interpretazione tra mondi – Il pensiero figurale di David Lynch di Pierluigi Basso Fossali, Edizioni ETS, 2008, Pisa, p. 63), in grado di mantenere un legame forte con le pulsioni, con l’irrazionale, con il sensibile, mentre invece la parola si rivolge più direttamente al raziocinio. In tal modo, Lynch riesce a comunicare un “senso” attraverso la concatenazione delle immagini e la rievocazione di un’iconografia condivisa (i volti di BOB e Laura Palmer) al fine di rimpolpare la sua creatura, dandole Storia e sostanza mitologica. Lo fa anche attraverso emozioni basilari, come la paura e il disgusto. L’ultima parte dell’episodio compie infatti un’ipnotica rimediazione del fanta-horror degli anni Cinquanta, lo ripropone in una veste turpe, oscura, esasperante, allucinata, dove la pseudo-umanità dei Woodsmen è più terrificante di qualunque invasione aliena, e l’ossessiva ripetizione della domanda – «Gotta light?» – ha la piattezza disturbante di un automa. Lynch pone fine all’età dell’innocenza risalendo all’origine delle paranoie post-belliche (l’inaugurazione dell’era atomica), che sparge i semi di un Male primigenio, disumanizzato e disumanizzante, destinato poi a esplodere nella tranquillità di Twin Peaks. Il tutto avviene in virtù di quelle “trasmigrazioni tra mentale e materiale” (ibidem, p. 65) che danno corpo a visioni astratte, generatrici sovrasensibili di entità terrene, legate a un quadro più grande che sta lentamente prendendo forma. Una pietra miliare nella storia della televisione, senza alcun dubbio.

Voto: ★★★★★

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