Il riferimento era alle due pellicole prodotte da Netflix selezionate per il concorso ufficiale, Okja di Bong Joon-ho e The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach. Subito sono iniziate le speculazioni: la giuria deciderà di non premiarle a prescindere o ragionerà valutando solo i meriti delle pellicole?
Ora che abbiamo visto entrambi i film, la risposta possibile è una sola: Okja e The Meyerowitz Stories non vinceranno semplicemente perché non lo meritano.
Okja è la storia di un maiale gigante creato in laboratorio da una multinazionale del cibo e dato in affidamento ad una fattoria coreana per studiarne la crescita. Passati 10 anni deve fare ritorno negli States sia per ragioni promozionali (“ecco cosa mangeremo d’ora in avanti”) che, successivamente, per essere mandato al macello. La ragazzina che l’ha allevato non vuole sacrificarlo e così, aiutata da un gruppo di ambientalisti, fa di tutto per impedire la sua uccisione. Al di là degli effetti speciali e di una critica generale al consumo di carne da allevamenti intensivi, siamo davanti ad un incrocio tra Babe e La carica dei 101.
The Meyerowitz Stories è invece il racconto – in chiave di commedia – di due fratelli e una sorella riunitisi intorno al capezzale al padre malato, un professore d’arte di New York frustrato dal successo mancato come artista. Il film scorre via senza macchie, dialoghi simpatici, sentimenti positivi, interpretazioni degne del talento del suo cast , ma tutto tremendamente già visto. The Meyerowitz Stories è la classica commedia ebraico-upper class-newyorkese.
Okja e The Meyerowitz Stories sono film mediamente carini che si dimenticheranno subito. Da Fuori Concorso al massimo. Il paradosso è che se avessero avuto un produttore o distributore “tradizionale”, probabilmente non sarebbero stati mai selezionati. Desideroso di portare sul red carpet volti noti come Tilda Swinton, Paul Dano, Dustin Hoffman, Ben Stiller, Emma Thompson e Adam Sandler, e “costretti” da chissà quali accordi, a metterli in concorso, il Festival ha così tradito quell’ambizione – quest’anno più marcata che in passato – di portare in competizione solo film dalla forte impronta autoriale. Il risultato finora non è qualitativamente soddisfacente, ma non si può negare che ogni pellicola passata finora in competizione abbia un modo di raccontare il cinema lontana da approcci commerciali. Netflix nega tutto questo. Dovrebbe rappresentare il nuovo, è invece emblema dell'”andare sul sicuro”, pellicole gradevoli che non osano, si accontentano di un aggettivo come “carino”. Netflix a Cannes è fuori luogo non perché distribuirà le sue pellicole senza passare per il Grande Schermo, ma perché non in grado di capire che da un Festival del cinema come Cannes, al di là del glamour e degli sponsor, gli spettatori si aspettano ancora di trovare il voglia di cercare nuove strade, stimolare dibattiti culturali che riguardino la composizione delle immagini e non le loro cornici.
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