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Paterson, ecco perché non abbiamo amato il film di Jim Jarmusch presentato a Cannes

Pubblicato il 16 maggio 2016 di Andrea D'Addio

Hai l’incanto di un fiume

sotto cieli tranquilli.

Ci sono cose imperfette

ma vi si stende una musica.

E dice che per letto

di tenebre si spinge la corrente

a che smagliante mare

che increspa la mia mente

Corrente, William Carlos Williams

Paterson non è solo un’anonima cittadina industriale del New Jersey nota agli italiani soprattutto per essere stata uno dei principali punti di ritrovo dalla nostra comunità di emigrati a fine 1800, ma anche – nel nuovo ed omonimo film di Jim Jarmusch – il nome di un trentenne conducente di un autobus locale che divide il suo tempo libero tra passeggiate notturne e la poesia. Ogni elemento della vita quotidiana è per lui fonte di ispirazione. Uno dei suoi punti di riferimento artistici è il poeta William Carlos Williams, che nacque e morì nella vicina Rutherford. Paterson vive con la sua compagna, un’aspirante cuoca pasticciera appassionata di cupcake e un cane, Marvin. La sua è una vita regolare, si potrebbe dire monotona se non fosse per la scrittura e per qualche sporadico incontro con personaggi che sembrano assegnategli dal destino, che sia una bambina appassionata di Emily Dickinson che attende la mamma davanti all’ufficio  o un giapponese, anche lui grande amante di versi e rime, che regala bloc-notes per far riaccendere l’ispirazione.

Costruito riprendendo alcune caratteristiche stesse delle poesie, con giorni che sembrano strofe, situazioni e parole simili, se non uguali, che si ripetono consecutivamente come se fossero rime ed un finale che più che chiudere, rende circolare l’intera narrazione, Paterson ha il merito di essere – sulla carta – un eccezionale progetto “scritto”, quanto il demerito di non essere godibile durante la visione. Non bastano le simpatiche scenette o personaggi creati da Jarmusch per alleggerire o dare un minimo di ritmo, il film rimescola concetti sulla poesia (ma non per questo non poetici) con un insopportabile didascalismo lontano dai migliori lavori del cineasta statunitense. Emblematico in tal senso è il personaggio della compagna di Paterson, interpretato da (una sprecata) Golshifteh Faharadi  Rappresenta il limite delle relazioni amorose, il compromesso a cui Paterson è costretto per andare avanti con una routine che forse non gli è così stretta, ma la sua civetteria  ed immotivato entusiasmo riguardo a tutto e tutti, diventa ben presto macchiettistico, incapace di aggiungere anche un solo granello di spessore l’intera vicenda. La scelta di sovrascrivere i versi delle poesie di Paterson sullo schermo mentre le declama supera ben presto il desiderio di indagare i percorsi dell’ispirazione o del sentirsi poeta, sia perché non si parla di versi così belli da lasciare stupiti (ma anche se lo fossero, non è detto che il contesto sia il migliore per apprezzarli) sia perché non hanno esplicita attinenza con ciò a cui si è assistito nei momenti precedenti della storia. Altrettanto piatta risulta l’interpretazione del protagonista  Adam Driver, il cui nome tradotto però – guidatore – risulta quantomeno perfetto per la parte. Non poteva fare molto di meglio. Le sue emozioni vengono comunicate attraverso le poesie. Voce, non immagini. Sia chiaro, parliamo di un film di Jarmusch, un lavoro che in qualche modo fa riflettere ed ambisce a parlare di qualcosa di cui raramente si vede al cinema, però ciò non basta a portarci a consigliarvene la messa in priorità tra le pellicole da andarvi a gustare al cinema. Il film è in concorso al Festival di Cannes 2016. Difficile pensare ad un premio.

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