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Il miglior film italiano degli ultimi anni. Ormai questa è la frase più ripetuta e associata a Lo Chiamavano Jeeg Robot, il film diretto da Gabriele Mainetti, in arrivo nelle nostre sale il 25 febbraio (guarda il trailer finale).
Con molto coraggio ha cercato di allontanarsi dai cliché che animano le produzioni nostrane, dimostrando che anche noi siamo in grado di realizzare opere in grado di competere con i migliori blockbuster hollywoodiani. Protagonista un grandissimo Claudio Santamaria nei panni di Enzo Ceccotti, il primo, vero, “supereroe” italiano. Una figura che non cerca di imitare i suoi colleghi americani e il citato Jeeg Robot e che, come dichiarato dallo stesso regista, è protagonista di una storia che incarna “le verità che ci appartengono, tangibili in personaggi ricchi di fragilità”.
Per comprendere meglio il film fenomeno e come è stato realizzato, abbiamo avuto una piacevole chiacchierata con Gabriele Mainetti, classe 1976 e artista piuttosto versatile: è attore, regista, compositore e produttore cinematografico italiano. Ha sfiorato la candidatura all’Oscar il corto Tiger Boy nel 2012, e ha poi concentrato le sue energie su questo progetto, originale e inedito nel nostro panorama, che ha presentato in anteprima lo scorso ottobre a Roma con un enorme risposta di critica e pubblico.
Qual è stata la tua più grande preoccupazione prima di presentare il film al Festival di Roma e ora al grande pubblico?
Quando l’ho presentato alla Festa del Cinema non ero nervoso perché erano state selezionate una serie di opere che in un modo o nell’altro dovevano avere qualcosa di speciale. Ero convinto che il film avesse appunto qualcosa di “speciale”, ma non che fosse meraviglioso o altro. Vi vedevo una sua originalità perché non sono andato a pescarne il carattere da altre parti. Ero sereno, perché immaginavo che il film avesse un target preciso, di nicchia, e così non è stato. La partecipazione è stata massima, in ogni fascia d’età, e mi mise in crisi perché aveva un target ben più ampio di quanto ipotizzato. Il grande pubblico è invece l’angoscia più grande! […] Perché a differenza del festival, non so precisamente a cosa può essere sensibile, e lo scopriremo a breve con l’uscita in sala.
Il soggetto era già pronto dal 2010. A quante porte hai dovuto bussare per riuscire a realizzare il film? Hai dovuto cedere a molti compromessi o sei riuscito a realizzare esattamente la pellicola che volevi?
Ho bussato a diverse porte, non tantissime essendo nell’ambiente e facendo l’attore. Ho dovuto chiedere aiuto per bussare a porte di persone più importanti, ma è andata come doveva andare e mi fa sorridere che molti ora mi dicono “Ma perché non sei venuto da me?”. Io stesso volevo che andasse così. L’incontro con RaiCinema è stata la svolta “felice”, che mi ha permesso continuare a sviluppare la sceneggiatura e di fare il produttore del film. Mi ha dato quella libertà che il compromesso che io facevo era unicamente legato alla possibilità realizzativa che era imposta da un budget contenuto. Non mi sono censurato in niente.
Il film funziona perché è molto realistico, e credi a tutto quello che stai vedendo. Come hai fatto a trasformare un budget così esiguo in una resa scenica così riuscita?
Avevo un budget contenuto, è vero. Però gli attori hanno scelto di accettare compensi minimi, e anche altri, compresi gli stessi produttori, hanno deciso di reinvestire direttamente il loro fee nel film, che era quindi più ricco della cifra che io dico (intorno al milione e settecentomila euro, stiamo ancora rivedendo le cifre). Questo perché tutti sapevano di stare lavorando ad un film speciale, con un entusiasmo collettivo, totale da parte di tutti quelli che hanno partecipato. Nessuno ha fatto nulla gratis, tutti si sono impegnati al massimo.
La scena più complicata da girare?
È difficile dirlo. Sicuramente tutte quelle dove c’era un rischio per gli attori o gli stuntmen. Io cerco sempre di previsualizzare tutto, non faccio storyboard tranne quando ci sono scene con stunt molto complicati, però credo proprio la scena più complicata sia stata quella iniziale, soprattutto nella fase di post-produzione e montaggio. Purtroppo non avevamo il materiale che speravamo di avere; ero convinto di riuscire a fare determinate cose, in particolare con i droni, e non è andata così. Sul set a volte sembra che tutto voglia ostacolare il regista per realizzare il film, io cerco sempre di farmi consigliare dagli altri, tenendo saldi alcuni punti chiave. Ho imparato ad essere così nel tempo, però quando quello che ti eri immaginato te lo devi reinventare completamente, e non ci sono i materiali che tu avevi chiesto, puoi andare in crisi, come mi è successo quel giorno. La scena iniziale, il drone che sta su Roma mentre percepiamo il fiato di Santamaria che sta scappando in una Roma labirintica, sono riuscito ad ottenerla solo girando la scena finale con il drone sul Colosseo, altra scena che è stata un parto infernale (girata quattro volte, molto snervante): in quel momento mi venne l’idea su come aprire il film e mi sono in qualche modo riscattato. […] Ci sono state diverse giornate difficili, che siamo riusciti a reggere perché avevamo tutti il sorriso. Il film l’ho girato nel 2014, alcune cose non me le ricordo.
Avete già idee per un sequel?
Ci sono delle idee che ho affrontato con i due sceneggiatori. A me piacciono molto, perché i sequel non sono semplice. In questo caso il personaggio principale ha già un arco di trasformazione rilevante, e il film teoricamente è “risolto”. Potrebbe anche chiudersi così, non avrebbe bisogno di un sequel. I sequel si fanno perché ci si affeziona ai personaggi, e si vorrebbe continuare a viverne le sue avventure, e per questo ci siamo messi a pensare per come può essere reso e interessante, come trovare nuovi antagonisti. Idee belle ne sono venute…
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Lo Chiamavano Jeeg Robot farà il suo ingresso nelle sale italiane il 25 febbraio 2016 distribuito da Lucky Red. Nel cast troviamo anche Luca Marinelli, Stefano Ambrogi, Maurizio Tesei, Ilenia Pastorelli e Francesco Formichetti.
Fonte: ScreenWeek