Leone d’Oro nel 2001 per Monsoon Wedding, attiva negli ultimi anni soprattutto nel panorama cinematografico statunitense, Mira Nair non nasconde di trovare più di un punto di contatto con il protagonista del suo The Reluctant Fundamentalist. Non solo per l’esperienza professionale a cavallo di due mondi, ma anche perché vicina al Pakistan, terra di origine di suo padre e da lei considerata molto simile all’India, in barba all’ostilità che si è soliti pensare divida i due Paesi. Un motivo in più per girare questo film, che racconta il viaggio di un giovane di Lahore dentro e fuori l’American Dream, prima e dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Qui potete trovare la nostra recensione del film, visto a Venezia 69. Ecco invece l’intervista a Mira Nair.
Mira Nair, il tema di The Reluctant Fundamentalist era già stato anticipato dal suo cortometraggio all’interno del film 11 Settembre 2001, girato nel 2002. Da allora sono passati 10 anni, è arrivato Obama, sono cambiate molte cose.
È vero, ma la frattura creata da Bush dopo l’11 settembre, con la politica “con noi o contro di noi” è diventata sempre più profonda, e ha provocato una guerra dopo l’altra. Si è innalzato un muro tra Occidente e Islam, un muro sempre più alto. Credo che una delle ragioni per cui Obama è arrivato al potere sia proprio il desiderio di curare questo strappo e dare avvio a un processo di riconciliazione. Sicuramente lui ha una maggiore comprensione di ciò che avviene nel resto del mondo, ciononostante le guerre non sono finite, anzi. La mia, ma non solo la mia, grande preoccupazione è che diventi anche lui parte della macchina della guerra, anche se tutti ci auguriamo di no perché crediamo in lui. Fatto sta che il muro tra le nostre culture e i nostri mondi ha continuato a crescere, a innalzarsi, e questa è una delle ragioni profonde che mi ha spinto a fare The Reluctant Fundamentalist. Io conosco entrambi i due mondi, proprio come i protagonisti del film, e mi rendo conto che tra di essi è possibile, e necessario, instaurare un dialogo costruttivo, sincero. Il film mostra il bisogno di tornare a concentrarsi sull’essere umano, e soprattutto come il sospetto reciproco possa dividere due persone che in un altro luogo e in un altro contesto, avrebbero potuto andare d’amore e d’accordo. Da qui anche il senso di tristezza che alla fine si abbatte sui personaggi del film, il ragazzo pachistano e il giornalista americano. Entrambi non riescono a capire come sia stato possibile arrivare a un punto così drammatico.
Però il film non sembra ottimista riguardo alla capacità degli americani di mettere da parte sospetti e pregiudizi.
Sì, il film non nasconde questa assurda logica dello sparare prima ancora di provare a parlare con l’altro.
E lancia anche un parallelo audace tra il fondamentalismo del denaro, della ricchezza, e quello della religione.
Questo è proprio quello che mi ha affascinato nel libro di Hamid Mohsin, da cui è tratto il film. Se ci si pensa bene sono la stessa cosa, entrambi trascurano gli esseri umani in nome di una causa ritenuta più importante, ma è un tema su cui chissà perché non si riflette mai.
I pregiudizi di cui parla in The Reluctant Fundamentalist sono anche quelli ampiamente diffusi nei media. Succede però raramente che se ne parli al cinema, in maniera meno banale e stereotipata.
Credo che dovrebbero esserci quanti più film possibile su questo tipo di argomenti, se trattati appunto in modo non banale. Tutti sappiamo quanto sono potenti questi media, e sappiamo anche quanti film, o comunque quante volte sono state mostrate le bare dei caduti di guerra che vengono rispedite in patria, accompagnate dai discorsi sulla libertà e la democrazia. Quello che non viene mai fatto vedere è la controparte, le persone a cui hanno bombardato le case e le migliaia di morti. Non si vede mai l’altra parte della storia, e quello che mi ha dato Hamid Mohsin con il suo libro è stata la possibilità di mostrare un dialogo che non escludesse nessuna delle due parti.
La sua storia ricorda un po’ quella del protagonista. Anche lei è arrivata in America molto giovane: quanto ha messo di sé nel racconto?
Certo, entrambi abbiamo avuto questa esperienza di vivere e studiare in America, a entrambi è stato sempre detto, e abbiamo anche avuto modo di provarlo sulla nostra pelle, quanto è bella la vita negli Stati Uniti. Per cui la storia del protagonista ha molti punti di contatto con la mia, soprattutto per quanto riguarda il sentirsi a casa in due Paesi e due contesti così diversi. Ma lui nel film ha poco più di 20 anni, quello che mi interessava raccontare è il senso di disorientamento che vive stando in sospeso tra questi due mondi, il percorso che lo porta a interrogarsi su chi è veramente, che lo porta a cercare la SUA voce. Questa è una delle altre ragioni per cui ho fatto questo film, per aiutare i giovani che devono trovare la propria strada. Ci hanno sempre parlato del Sogno Americano, e in qualche modo siamo stati portati a credere che per realizzare qualcosa nella nostra vita sia necessario andare da qualche altra parte. Oggi, poi, i bambini crescono in un mono così globalizzato e così connesso che sanno già tutto ciò che accade in ogni luogo già da quando hanno 5 anni. Ma questo non fa che rendere più difficile il loro compito, quello di capire chi sono veramente. Inoltre, c’è molto della mia esperienza personale anche in ciò che succede al protagonista dopo l’11 settembre, in come vede cambiare improvvisamente il modo in cui le persone lo guardano e lo trattano. Anche a me è capitato di osservare questa svolta radicale nel comportamento verso gli stranieri, in particolare quelli dall’aspetto mediorientale. Sono cose che ti fanno riflettere molto.
Come ha trovato un attore convincente come Riz Ahmed, che tra l’altro è anche un rapper?
Non è stato facile, avrò fatto 200 provini prima di scegliere lui, anche perché è inglese, mentre io volevo un attore pachistano, volevo che il suo personaggio fosse realistico. Ma a parte le difficoltà incontrate per avere attori pachistani, soprattutto i visti necessari per lasciarli venire a girare a Delhi, Riz mi ha convinto immediatamente di essere l’attore giusto. Senza nemmeno aver letto il copione, ha recitato la scena del litigio con il padre, da cui ho capito che aveva una comprensione profonda, intima, dei sentimenti e dei concetti che fanno da sfondo a quel dialogo. Non solo sapeva interpretarli, conosceva esattamente quello di cui si stava parlando, e questo era fondamentale per il film. Ci sono cose che un regista non può spiegare fino in fondo a un attore, bisogna averle provate sulla propria pelle.
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