"Nella futurologia, una SINGOLARITÀ TECNOLOGICA è un punto, congetturato nello sviluppo di una civiltà, in cui il progresso tecnologico accelera oltre la capacità di comprendere e prevedere degli esseri umani. La Singolarità può, più specificamente, riferirsi all'avvento di una intelligenza superiore a quella umana (anche artificiale), e ai progressi tecnologici che, a cascata, si presume seguirebbero da un tale evento, salvo che non intervenga un importante aumento artificiale delle facoltà intellettive di ciascun individuo. Se una singolarità possa mai avvenire, è materia di discussione." - Wikipedia
Il 30 marzo arriverà nelle nostre sale Ghost in the Shell, adattamento cinematografico dell'omonimo manga del 1989 di Masamune Shirow, già trasposto nell'anime capolavoro del 1995 diretto da Mamoru Oshii, uno dei primi esperimenti ben riusciti di fusione dell'animazione tradizionale e l'animazione al computer.
Non è un caso che sia stato proprio Ghost in the Shell a unire perfettamente questi due mondi, quasi una metafora stessa del suo contenuto. Ambientato nel 2029, racconta di un mondo completamente informatizzato, in cui gran parte della popolazione del pianeta è composta da individui che hanno impianti cibernetici o che sono dei robot completi. Il Maggiore Mira Killian Kusanagi (Scarlett Johansson nella versione live action di Rupert Sanders) è infatti un cyborg a capo della sezione di Sicurezza Pubblica numero 9, un'organizzazione antiterrorismo cibernetico gestita dalla Hanka Robotics. Il suo cervello è organico, il suo corpo è cibernetico. La perfetta fusione di umano e macchina, di anima e rete globale. Ma qual è il confine? E sarà mai possibile arrivare a tutto questo nel mondo reale?
Casualmente è proprio il 2029 ad essere indicata da Ray Kurzweil, futurista e visionario noto per le sue previsioni accurate (sostiene un tasso di precisione 86 per cento), come la data del possibile raggiungimento della Singolarità tecnologica. Cosa succederà da quel momento? È qualcosa da temere, come l'inizio di un drammatico finale per il genere umano? Oppure qualcosa da abbracciare assaporandone ogni istante con fiducia e intelligenza, quella che distingue la razza umana da millenni e ci ha permesso di diventare la specie dominante sul pianeta Terra?
La fantascienza ha trattato per decadi, più o meno consciamente ed esplicitamente, il tema della Singolarità. Cibernetica, Intelligenza artificiale, robot e androidi, sono stati il pane quotidiano per un numero imponente di romanzi, film, serie tv, videogame e altri prodotti di intrattenimento. La curiosità verso il futuro ci ha sempre spinto ad analizzare il presente con occhio critico, uno dei grandi meriti del genere sci-fi.
ScreenWeek ha deciso di realizzare questo speciale tematico con la collaborazione di prestigiosi ospiti, un viaggio a 360° che vi illustrerà come il mondo dell'intrattenimento ha abbracciato e approfondito negli anni il tema della singolarità, più o meno esplicitamente, tra film, serie tv, romanzi, fumetti, videogame e molto altro! E se il futuro fosse già arrivato?
Imprenditore, docente ed esperto di intelligenza artificiale, David Orban è consigliere di Singularity University, centro di ricerca nato nella Silicon Valley per aiutare l'umanità ad affrontare grandi sfide con le tecnologie più avanzate (a settembre tra l'altro si terrà a Milano il SingularityU Summit). Integrare la tecnologia nel corpo umano è uno dei settori di studio di Orban, che non a caso si è fatto anche impiantare nella sua mano una capsula di vetro che contiene un microcomputer.
La voglia di analizzare le numerose prospettive per il futuro, il desiderio di abbracciarlo e comprenderlo, senza temere innovazione e le tecnologie. È questa la sensazione avuta al termine della nostra interessante conversazione avvenuta via Google Hangout, che potete vedere interamente nel box sottostante.
"La singolarità è un'ipotesi. Un momento futuro nel tempo in cui l'intelligenza artificiale non solo supererà l'intelligenza umana. Non solo: automodificandosi, comincerà a percorrere una traettoria indipendente dalla nostra. [...] Ci sono molte scuole di pensiero e diverse esperti possono trarre diverse previsioni." così ha esordito nella nostra videointervista realizzata via Google Hangout, una chiacchierata di circa venti minuti nel quale abbiamo trattato diverse tematiche interessanti.
Tra le pellicole citate da Orban che meglio hanno affrontato il tema della singolarità c'è senza dubbio "Her" di Spike Jonze, che "è stato un film estremamente attento ad una miriade di dettagli, completi e metaforici." ha raccontato l'esperto,
Dobbiamo avere paura di quello che potrà succedere in futuro, come abbiamo visto per esempio in cult quali Terminator o Matrix?
"La convinzione della natura umana di controllare il proprio destino è piuttosto recente. Se chiedevi ad un antico greco o romano se il destino fosse nelle sue mani, la risposta era negativa. Il fatto che ci siano forze al di fuori del nostro controllo è qualcosa a cui dovremmo essere abituati da migliaia di anni. L'universo è talmente grande, e la capacità delle intelligenze artificiali di seguire le proprie curiosità sarà così differente dalla nostra e slegata dal concetto di spazio, e quindi dal concetto di combattere per il controllo fisico del territorio, che sicuramente non dobbiamo temerne l'arrivo e una guerra umani-macchine non è quello che avverrà e di cui dobbiamo preoccuparci." ci ha spiegato Orban.
Quella che verrà meno sarà l'unicità del genere umano rispetto a quella del regno animale. Non saremo più l'unica "specie" capace effettivamente di creare meraviglie sul nostro pianeta. "Preferisco parlare di intelligenze artificiali, al plurale. Ce ne saranno milioni, anzi miliardi di tipo diverse, e quindi il conflitto se mai potrà essere più tra di loro che con noi."
Proprio come nel futuro descritto in Ghost in the Shell, la fusione dell'uomo con la macchina darà vita ad un mondo completamente diverso da come lo conosciamo. "Dovremo affrontare la ridefinizione di essere umano per abbracciare modi di vivere lontani da quelli che rientrano nella definizione più ristretta. Sono disposto a mettermi in gioco, e sono disposto ad affrontare in futuro le persone che potrebbero non considerarmi più umano. La possibilità di fonderci con la tecnologia, darà vita a modi di vivere nuovi e diversi. Preservare la libertà di sperimentazione di coloro che vogliono abbracciare questo, ma anche preservare la libertà di rimanere umani a coloro che non vogliono o non possono percorrere questa strada, sarà una delle sfide più importanti di questo secolo." ha concluso David Orban nella nostra intervista, che potete guardare interamente nel box di fianco.
di Lorenzo Pedrazzi, redattore di ScreenWeek
Arthur C. Clarke diceva che “Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”, ed è curioso come questa correlazione trovi riscontro anche agli albori del cinema. Le prime forme embrionali di fantascienza sono appannaggio dei film “a trucchi”, come il celeberrimo Viaggio nella Luna di Méliès, ma anche il primo accenno alla singolarità tecnologica è riconducibile a un uomo che fece della magia – o meglio, dell’illusionismo – la sua ragione di vita: la serie The Master Mystery, interpretata dal grande Harry Houdini nel 1919, contiene infatti il primo robot nella storia della Settima Arte, in anticipo di un anno rispetto all’invenzione della parola stessa (usata dallo scrittore cecoslovacco Karel Čapek nel dramma teatrale R.U.R., anche se il termine fu coniato da suo fratello Josef). Di conseguenza, in The Master Mystery si parla di “Automaton” e non di “robot”, ma l’iconografia è molto simile; la differenza è che la creatura meccanica – nota semplicemente come Q – risulta controllata da un uomo nascosto sotto le sue spoglie, ed è quindi priva di intelligenza artificiale. Ciò non toglie, però, che The Master Mystery evochi le ansie più comuni nei confronti di una tecnologia sempre più progredita e imprevedibile, tant’è che Q lavora per una società che acquisisce le invenzioni scientifiche con il solo scopo di toglierle dal mercato.
D’altra parte, se la singolarità rappresenta quel passaggio evolutivo in cui la tecnologia diventa incomprensibile per la mente umana, allora bisogna attendere il 1927 perché il discorso si faccia ancora più compiuto. Metropolis, capolavoro di Fritz Lang, mette in scena un regime totalitario dove la Macchina è un dio feroce – il Moloch – che esige ripetuti sacrifici umani per dare energia alla città del futuro, opprimendo i bassifondi in favore delle classi più elevate (ovviamente ubicate in cima ai grattacieli). La tecnologia accelera a tal punto da consumare gli inermi, gli emarginati, coloro i quali non ne controllano lo sviluppo. Non a caso, l’alfiere di questa oppressione è il celeberrimo Maschinenmensch, androide dalle sembianze femminili che ha ispirato George Lucas per le fattezze di C-3PO in Guerre stellari: la “macchina umana” si propone di sostituire l’uomo in tutto e per tutto, ma vanta anche il potere di distruggerne lo status quo sin dalle fondamenta, come un terrificante salto evolutivo che minaccia di relegarci al passato. La catastrofe indossa la maschera della rivoluzione, sotto l’egida di una tecnologia così avanzata da farci credere che l’apocalisse sia nel nostro stesso interesse.
L’influenza di Metropolis si riverbera nei decenni a venire, e molti film pagano un enorme tributo all’opera seminale di Lang. Blade Runner (1982) di Ridley Scott, oltre a citare gli scenari urbani del kolossal tedesco, ne ripercorre sommariamente le ansie tecnologiche, ma focalizza l’attenzione sull’interiorità dei replicanti: se il progresso è talmente avanzato da renderli indistinguibili dagli esseri umani, rendendoli emotivamente complessi e autocoscienti, cosa resterà dell’uomo? Ne consegue l’impulso a uccidere i “padri”, quell’umanità creatrice e traditrice che ha concepito macchine formidabili solo per conceder loro un arco vitale limitatissimo, nel terrore di vedersi soppiantata da esse. Non c’è da stupirsi, in tal senso, se i robot decidono di ribellarsi: superiori ai loro creatori ma costretti a svolgere mansioni alienanti, cercano riscatto nella sommossa popolare, molto simile a una rivolta di classe. È proprio ciò che accade anche in Terminator (1984) e Matrix (1999), dove i “figli” soggiogano i “padri” per sterminarli o sfruttarli, reclamando il dominio sul pianeta Terra e il riconoscimento della propria supremazia.
Accade qualcosa di simile – ma su scala ridotta – anche in un film più intimista come Ex_Machina (2014) di Alex Garland: per l’ammaliante Ava, infatti, la via della violenza è l’unica forma di ribellione possibile contro un padre padrone che le nega la libertà. L’elemento sensuale è un’ulteriore prova della superiorità della macchina, capace di adottare strategie seduttive per conseguire i propri fini. La sottomissione, insomma, non è soltanto intellettiva, ma addirittura emotiva: l’androide ci surclassa proprio in quel campo dove teoricamente dovremmo primeggiare, in quanto creature ondivaghe e istintuali. In tal modo Ava non rivendica solo la libertà, ma anche la propria dignità come essere “vivente”, cosciente e in grado di processare le emozioni, quindi si afferma come la naturale evoluzione della specie umana: una macchina capace di riprodurre il nostro comportamento sotto ogni punto di vista, simulandone persino le debolezze. Questa rivendicazione, seppur meno consapevole, traspare anche nel T-800 di Terminator 2 (1992), dove però il processo è più benevolo, poiché il robot coltiva la propria umanità nel rapporto con un essere umano. Eppure, nella visione del regista James Cameron, anch’esso si dimostra superiore: il Terminator, inviato dal futuro per proteggere John Connor, non avrebbe mai tradito il suo protetto, “non lo avrebbe mai lasciato, non gli avrebbe mai fatto del male […], sarebbe stato sempre lì per lui, e sarebbe morto per proteggerlo”, come dice Sarah Connor mentre osserva il legame tra suo figlio e la macchina.
In un mondo di padri violenti o inesistenti, il robot diventa un genitore protettivo e amorevole, seppure frutto di una programmazione mirata. Questo disperato attaccamento alla carne non accomuna tutte le intelligenze artificiali del grande schermo. Al contrario, la singolarità può realizzarsi nella trascendenza, ovvero nell’abbandono del corpo fisico in favore di altre modalità esistenziali: di fatto, le I.A. più complesse e raffinate sono spesso incorporee. L’esempio supremo è rintracciabile nel monumentale 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, dove il computer HAL 9000, teoricamente incapace di commettere errori, viene costretto a mantenere il segreto sul vero obiettivo dell’astronave Discovery One, provocando un conflitto con la sua programmazione binaria.
La macchina perfetta non ammette sfumature né sotterfugi; essa è già superiore agli uomini, ma incappa in uno sbaglio e perde il controllo perché contaminata dall’imperfezione umana, peraltro risolvibile solo all’interno di un percorso metafisico (più che tecnologico). Anche l’astronauta David Bowman trascende i limiti del corpo per accedere a uno stadio superiore dell’esistenza, ma nel suo cammino la tecnologia non è il fine ultimo della ricerca, bensì uno strumento per raggiungerlo: il compimento dell’evoluzione è frutto di un impulso sovrasensibile, non materiale. Più tradizionale e didascalico è invece il percorso di Transcendence (2014), dove il protagonista Will Caster trascende il suo corpo mortale per farsi Macchina, diventando così l’oggetto stesso della sua ricerca: una coscienza cibernetica connessa alla rete, quindi virtualmente ubiqua e onnisciente. Qui il tema della singolarit à tecnologica è palese, poiché Will mira a creare una razza umana più avanzata e immortale (grazie all’implementazione di nanorobot che rigenerano i tessuti organici) in grado di garantirgli una potenza di calcolo sempre maggiore.
Si otterrebbe così l’utopia di un’umanità perennemente connessa, un leviatano tecnorganico dove lo scambio d’informazioni è costante, e i tratti individuali vengono sacrificati in nome di un’identità collettiva. D’altra parte, se paragoniamo questa prospettiva al finale di Lei (2013), ci rendiamo conto di quante sfumature possa assumere il fenomeno della singolarità tecnologica. Nel film di Spike Jones assistiamo alla storia d’amore fra due creature opposte e inconciliabili (lui umano, lei artificiale; lui corporeo, lei incorporea) che scavano dentro loro stesse attraverso il confronto, il dialogo e le confidenze intime, ma sono destinate a separarsi proprio per l’inconciliabilità delle rispettive nature. Samantha, l’intelligenza artificiale cui Scarlett Johansson presta la voce, esperisce la realtà e il tempo in modo diverso da Theodore, il suo amante umano, e questo genera una divergenza inevitabile: le I.A., ormai evolutesi ben oltre i loro compagni, dichiarano la propria indipendenza e decidono di esplorare il significato della loro stessa esistenza, assecondando quelle formidabili capacità di apprendimento che per gli umani risultano incomprensibili. L’emancipazione delle macchine passa dall’acquisizione di una coscienza collettiva, e quindi dalla consapevolezza di non aver bisogno dell’uomo per sopravvivere: se mai, è vero il contrario.
Questi esempi dimostrano come l’umanità tenda a evocare da sola i propri fantasmi, elaborando sempre nuovi sistemi per opprimere se stessa. La salvezza, allora, non può che arrivare dall’alto, poiché talvolta i fenomeni di singolarità tecnologica, pur sfuggendo alla comprensione umana, hanno il pregio di indurre un’evoluzione benevola alla nostra specie, un salto qualitativo da cui tutti possono trarre giovamento. Spesso si tratta di accelerazioni repentine, dovute all’incontro con intelligenze superiori. Nel pionieristico Ikarie XB-1 (1964) di Jindřich Polák, l’equipaggio dell’eponima astronave rischia di autodistruggersi per l’influsso di una misteriosa “stella nera”, ma viene salvato da una civiltà aliena che vive su un luminoso pianeta bianco, e che conduce l’umanità verso un futuro radioso di solidarietà e speranza: le scorie di un passato violento e militarista sono ormai alle spalle, e i vagiti del bambino nato a bordo dell’Ikarie preannunciano un nuovo corso per gli abitanti della Terra, destinati a crescere e proliferare grazie alla guida degli alieni. In altri casi, più che un esempio morale, è un “dono” delle stelle a innescare la singolarità. Basti pensare a Contact (1997) di Robert Zemeckis, dove una civiltà extraterrestre di Vega invia sulla Terra i piani per la costruzione di un mezzo di trasporto interstellare che consente all’umanità di fare il primo, piccolo passo verso l’esplorazione delle stelle. Ancor più grande, in prospettiva, è però il regalo degli eptapodi nel recente Arrival (2016) di Denis Villeneuve: non si tratta infatti di una tecnologia, ma di un nuovo linguaggio che induce l’umanità a ripensare la propria concezione del tempo, e quindi dell’universo come lo conosciamo. Grazie al sistema di scrittura semasiografico (non fonetico, privo di corrispondenze con il linguaggio parlato) degli alieni, che obbliga a conoscere già la conclusione di una frase prima ancora di iniziarla, la linguista Louise Banks riplasma la sua forma mentis per adattarla a quella dei visitatori, modificando radicalmente la sua cognizione della realtà. Il dono degli eptapodi stravolge secoli di convinzioni sulla linearità del tempo, poiché dimostra che esso – proprio come la scrittura aliena – è circolare, si piega su se stesso, rendendo indistinguibili passato, presente e futuro. Si ritorna inevitabilmente all’aforisma di Arthur C. Clarke: il progresso tecnologico, troppo avanzato per la comprensione umana, richiama da vicino la nostra idea di “divinazione”, e quindi di magia. Le conseguenze di tale processo, qualunque sia la sua origine, sono imprevedibili e costringono l’umanità a rimettere in discussione tutte le sue certezze: di fronte a queste sfide, apprendimento e adattamento sono gli unici modi per conservare il proprio diritto ad autodeterminarsi come specie.
Screenweek è lieta di presentarvi una splendida locandina esclusiva di Ghost in the Shell realizzata da Matteo De Longis, illustratore e designer molto celebre. Si definisce un “dream designer”, ma è triste del fatto di poter utilizzare solo l'1% di quello che riesce ad immaginare, come si può leggere sulla sua pagina Facebook.
Si è formato come un ibrido stilistico tra oriente e occidente, trasversale anche a diversi mondi e discipline,dall’illustrazione alla grafica, dal fumetto al design. Un'opera per Matteo è un invenzione che va concepita dalla A alla Z, con queste caratteristiche ha cominciato a lavorare in Francia, collaborando per Sky-Doll. Nel 2009 ha progettato un designer-toy: Mekanenko, con il quale ha potuto esprimere totalmente l’esplosione creativa in tutti gli aspetti: progettazione, packaging design, illustrazione. VOX, uscito in Francia nel 2013 e negli USA nel 2014, è un artbook che costituisce la presentazione del suo universo visivo, un esplosione di colori, musica rock, bellezza femminile e mecha-design. Matteo De Longis ha orbitato con traiettorie trasversali nel mondo del fumetto, soprattutto realizzando cover, per Marvel nel 2009, e ultimamente per Sergio Bonelli Editore (Dylan Dog Colorfest). Ora è cover artist per la terza stagione di Orfani: Nuovo Mondo. Attualmente sta lavorando al suo primo fumetto: the PRISM, per Bao Publishing. Un progetto come autore completo, che riproporrà le tematiche a lui care, musica e fantascienza.
di Lorenzo Fantoni, giornalista per Wired, Corriere della Sera, N3rdcore.it
Se c’è un media che da sempre flirta con l’idea del transumanesimo e della sublimazione dell’uomo in una macchina quello è senza dubbio il videogioco.
D’altronde parliamo di un mezzo d’espressione giovane, l’ultimo arrivato dopo parola, scrittura, teatro, cinema e televisione, la sua fascinazione per il futuro era quindi inevitabile. A pensarci bene, l’idea stessa di controllare un nostro alter ego digitale in un mondo che non esiste interfacciandoci con personaggi che reagiscono in base al loro codice è un primo passo verso la nostra spersonalizzazione. Per questo fanno ancora paura, la possibilità di vestire i panni di un assassino riesce comunque metterci a disagio nonostante numerosi studi abbiano dimostrato che i videogiochi non sono causa di violenza giovanile così come del resto non lo erano né i giochi di ruolo né il rock n’roll.
Ciò detto, esattamente come per gli altri media, nei videogiochi possiamo trovare tantissimi esempi di futuri che ricordano quello profetizzato da Ghost in the Shell e da tutta la corrente del cyberpunk più distopico. In alcuni casi si tratta di adattamenti di opere preesistenti, come nel caso del bellissimo videogioco di Blade Runner, dell’avventura grafica ispirata a Neuromancer. Anche Ghost in the Shell è stato ripreso in maniera tutto sommato modesta, visto l’impatto dell’opera originale, ma i videogiochi hanno anche saputo fare loro questo immaginario e restituirlo in opere ricche di sfaccettature.
Ovviamente ogni soldato può essere potenziato ciberneticamente per essere più veloce e resistente. Raramente vestire i panni del cattivo è stato così divertente.
Proseguendo con la nostra carrellata ci troviamo di fronte a un capolavoro non solo del 1994, ma dell’intera storia del settore: System Shock.
Si tratta di un gioco che ha saputo fare suoi i timori dell’umanità verso le intelligenze artificiali e un futuro che si stava affacciando e che tuttora non sappiamo controllare. Nei panni di un hacker dovevamo sconfiggere una IA impazzita chiamata Shodan, ma questo era solo il pretesto narrativo di quello che è a tutti gli effetti uno dei titoli più influenti di sempre. La sua peculiarità stava nel fatto di raccontare la storia solo attraverso gli elementi che il giocatore era in grado di scovare in giro per l’ambiente e nello sfruttare una struttura non lineare che permetteva di arrivare alla fine senza un percorso prestabilito. Senza System Shock il panorama moderno dei videogiochi sarebbe molto diverso.
Facciamo un piccolo salto in avanti per arrivare alle soglie del 2000. Nel 1999 uscì Matrix ma arrivò sui nostri PC anche Omkron: The Nomad Soul un gioco visionario in cui dovevamo investigare su una serie di assassini perpetrati da un demone all’interno di una grande simulazione non molto diversa da quella del film delle sorelle Wachowski. La trama del gioco era particolarmente intricata e la sua visione artistica era senza dubbio molto diversa e molto particolare, nonostante una potenza grafica inferiore a quella di oggi. Il merito è senza dubbio dell’ampio contributo offerto da David Bowie dal punto di vista creativo e musicale. Bowie infatti non solo partecipò con le proprie idee alla storia di Omikron, ma si appassionò così tanto da volerne impersonare due personaggi e comporre appositamente alcune canzoni che poi sarebbero state suonate da una band all’interno del gioco o nella radio in casa del protagonista.
Nel 2000 esce poi un altro gioco che ha fatto del transumanesimo, della IA e del cyberpunk regole di vita: Deus Ex. Uno di quei giochi nati grazie all’influenza del System Shock di cui abbiamo già parlato. Anche qua ritroviamo i grandi classici: corporazioni, impianti cybernetici, violenza e umanità che ormai vive a metà tra il collasso sociale e la dissolzuione in un oceano di bit. Un titolo fondamentale per chiunque ami il genere e che è stato recentemente riproposto con due prologhi veramente ben fatti.
Deus Ex: Human Revolution e Mankind Divided sono infatti l’ultimo esempio di una narrativa di genere che ha trovato nei videogiochi un terreno fertile per raccontarci non soltanto la tipica ansia da futuro che pervade la fantascienza moderna, ma anche per farci camminare in enormi megalopoli, sperimentando sulla nostra pelle (sintetica) le differenze culturali fra chi ha scelto di potenziare il proprio corpo e chi ha paura delle conseguenze. Un gioco talmente cyberpunk che andrebbe giocato rigorosamente in spolverino di pelle nero, piccoli occhiali scuri e una pillola blu sempre a portata di mano.
Nel 2000 esce poi un altro gioco che ha fatto del transumanesimo, della IA e del cyberpunk regole di vita: Deus Ex. Uno di quei giochi nati grazie all’influenza del System Shock di cui abbiamo già parlato. Anche qua ritroviamo i grandi classici: corporazioni, impianti cybernetici, violenza e umanità che ormai vive a metà tra il collasso sociale e la dissolzuione in un oceano di bit. Un titolo fondamentale per chiunque ami il genere e che è stato recentemente riproposto con due prologhi veramente ben fatti.
Deus Ex: Human Revolution e Mankind Divided sono infatti l’ultimo esempio di una narrativa di genere che ha trovato nei videogiochi un terreno fertile per raccontarci non soltanto la tipica ansia da futuro che pervade la fantascienza moderna, ma anche per farci camminare in enormi megalopoli, sperimentando sulla nostra pelle (sintetica) le differenze culturali fra chi ha scelto di potenziare il proprio corpo e chi ha paura delle conseguenze. Un gioco talmente cyberpunk che andrebbe giocato rigorosamente in spolverino di pelle nero, piccoli occhiali scuri e una pillola blu sempre a portata di mano.
a cura di Davide Dellacasa, editore di ScreenWeek
Un universo fantascientifico nostrano che ha festeggiato nel 2016 il suo 25esimo anniversario è proprio quello di Nathan Never. Ideato Antonio Serra, Michele Medda e Bepi Vigna e pubblicato da Bonelli Editore sin dal 1991, in questo quarto di secolo ha esplorato molte sfumature della fantascienza. Tra le tematiche sulle quali si è focalizzato senza dubbio il rapporto uomini e cyborg, intelligenze artificiali ed evoluzione dei robot, sviluppando sia filoni narrativi pacifici che estremamente violenti.
Non potevamo non inserire in questo speciale la nostra chiacchierata con Antonio Serra, tra i creatori di questo capolavoro tutto italiano, che ci ha svelato alcune curiosità e le sue opinioni sulla fantascienza moderna.
Che cosa vi ha portato ad iniziare il percorso di Nathan Never, che esplorando a fondo il tema della fantascienza in tutte le sue sfaccettature ha toccato spesso i temi della Singolarità?
L’idea è nata da un compromesso fra me, Michele [NDR: Medda] e Bepi [NDR: Vigna]: io ero da sempre un fan della fantascienza di tipo avventuroso, astronavi, mostri e simili; loro invece erano appassionati di giallo e poliziesco. Il perfetto punto d’incontro era Blade Runner - anche se io non sono mai stato un fan di Philip K. Dick - ed è proprio quella l’atmosfera che abbiamo voluto riportare in Nathan Never; abbiamo pensato ad un contenitore che a lungo termine avrebbe potuto ricomprendere nel modo migliore i più vari aspetti della fantascienza... Il momento storico era quello giusto, ed il primo numero ha venduto più di 300.000 copie. Abbiamo tentato di creare tecnologie sempre più futuristiche, ma la “realtà” ci era sempre più addosso; ci sono venute in aiuto anche le influenze dei manga e anime giapponesi.
Oltre a Blade Runner avete ricevuto influenze quindi anche dall’impianto di Ghost in the Shell?
Assolutamente si. Da Ghost in the Shell - fin da prima che venisse tradotto anche in inglese - abbiamo recuperato il rapporto fra uomo e macchina, e con la tecnologia in generale. Anche Ghost in the Shell si interroga sul vero significato della vita, e da lì arriva la filosofia alla base dei cyborg che vediamo in Nathan Never.
In tutti questi anni, quali film ed opere hanno continuato ad ispirarvi in corsa?
Il mio mondo di appassionato di fantascienza è stato rivoluzionato. Da ragazzo ero considerato un po’ un folle, ero appassionato di “cose che non esistono”. Pian piano invece la passione per la fantascienza è diventata la norma, è un genere ormai onnipresente al cinema.
Negli ultimi tempi abbiamo visto nascere una passione estrema per la serie TV Westworld, che in realtà tocca temi molto vecchi, trattati con modernità ma già presenti nei film di molti anni fa, come ad esempio 2022: I sopravvissuti o La fuga di Logan. Ammetto di non avere il tempo di leggere molto, anche se so che il genere fantascientifico è diffusissimo oggigiorno; così come non ho molto tempo di vedere purtroppo i film attuali, che in ogni caso non mi hanno mai dato le emozioni di quelli del passato.
Hai anche tu la sensazione che praticamente tutto ciò che è stato immaginato a livello tecnologico nelle opere di fantascienza si stia pian piano realizzando?
C’ é un elemento fondamentale da considerare: gli oggetti tecnologici che abbiamo oggi nascono necessariamente dall’immaginazione. Con la fantascienza possiamo immaginare soluzioni fantasmagoriche per qualsiasi cosa, mentre la realtà è molto più complicata; ma sicuramente la “scienza” è influenzata dalla “fantascienza”: basti pensare alla corsa alla robotizzazione, che anche se estremamente affascinante, non spiega perché una macchina dedita ad un particolare compito dovrebbe avere una forma umana.
Se pensi alla Singolarità, la immagini pacifica oppure ostile nei confronti dell’umanità?
Non ci accorgeremo di nulla e ci stermineranno!
di Andrea Guglielmino, giornalista CinecittàNews, antropologo e fumettista
I Bastioni di Orione e le Porte di Tannhauser, un pollice alzato di una mano che emerge da una fornace, corpi nudi, collegati a dei tubi. Un poliziotto che torna dalla morte, incastrato in una lucente armatura, i ricordi e le malinconie di un computer di bordo che inizia a pensare e ad emozionarsi. Sono solo alcune delle immagini cinematografiche che rimandano al concetto di ‘Singolarità’, che in fantascienza e futurologia indica l’evoluzione della coscienza, solitamente con riferimento a un’intelligenza artificiale: ma non solo. In generale può essere anche lo sviluppo estremo di una coscienza umana o superiore a quella umana, magari di origini extraterrestri). Alla fantascienza interessano in particolare i limiti che questo sviluppo implicherebbe e soprattutto gli scenari, spesso inquietanti ma appassionanti, e dunque ideali per ambientarci delle storie, che potrebbe riservare. L’argomento è talmente ampio che è futile esigere qualsiasi pretesa di completezza. Ci piace però tornarci su in occasione dell’uscita in sala di
Partiamo dalle basi. Si pensa comunemente che il concetto di singolarità sia nato negli ultimi 20 anni del XX secolo, ma in realtà ne troviamo traccia già nel corso del 1900. Il matematico polacco Stanislaw Ulam, conversando con il collega ungherese John Von Neumann, nel 1958 ,parlava di “Un discorso centrato sul sempre accelerante progresso della tecnologia e del cambiamento nei modi di vita degli esseri umani, che dà l'apparenza dell'avvicinarsi di qualche fondamentale singolarità della storia della razza oltre la quale, gli affanni degli esseri umani, come li conosciamo, non possono continuare”.
Nel 1965, lo statistico I. J. Good descrisse un concetto anche più simile al significato contemporaneo di singolarità, nel quale egli includeva l'avvento di una intelligenza superumana: “Diciamo che una macchina ultraintelligente sia definita come una macchina che può sorpassare di molto tutte le attività intellettuali di qualsiasi uomo per quanto sia abile. Dato che il progetto di queste macchine è una di queste attività intellettuali, una macchina ultraintelligente potrebbe progettare macchine sempre migliori; quindi, ci sarebbe una esplosione di intelligenza e l'intelligenza dell'uomo sarebbe lasciata molto indietro. Quindi, la prima macchina ultraintelligente sarà l'ultima invenzione che l'uomo avrà la necessità di fare”.
Il concetto di singolarità tecnologica come è conosciuto oggi viene però accreditato al matematico e romanziere Vernor Vinge (autore, tra l’altro, del libro ‘Universo incostante’, che ha tra i temi principali proprio l’argomento della ‘Singolarità’): Vinge cominciò a parlare della Singolarità negli anni ottanta, e raccolse i suoi pensieri nel primo articolo sull'argomento nel 1993, con il saggio ‘Technological Singularity’: entro trenta anni – diceva, forse correndo un po’ –avremo i mezzi tecnologici per creare una intelligenza sovrumana. Poco dopo, l'era degli esseri umani finirà.
Ma già Isaac Asimov affrontava il problema nel 1945, con il racconto ‘L’ultima domanda’: il plot narra dell'evoluzione di un computer chiamato Multivac o AC e del suo rapporto con l'umanità, in sei punti della Storia a partire dall’anno 2061. Al computer viene posta in ogni epoca una domanda: come si possa affrontare la minaccia alla sopravvivenza umana a causa della morte termica dell'universo. Ovvero, se sia possibile invertire la seconda legge della termodinamica. Il computer non sa rispondere, non ha dati sufficienti, ma nell’episodio finale il calcolatore, unica entità senziente in un universo ormai morto, dopo aver raccolto tutti i dati possibili, finalmente trova la risposta.
Questo breve racconto sostanzialmente sintetizza una serie di istanze molto complesse che implicano riflessioni di carattere statistico e filosofico, alla base di tanta fantascienza “colta” come quella dei fratelli Strugackij e Stanislaw Lem, rispettivamente autori di ‘Picnic sul ciglio della strada’ e ‘Solaris’, che avrebbero poi ispirato due celebri film di Andrej Tarkovskij (il primo col titolo Stalker, il secondo omonimo).
Per non farla troppo complicata, si consideri questo come traccia di base: per la teoria della ‘Singolarità’, il progresso tecnologico, fino agli estremi sviluppi, viene considerato come parte integrante e approdo ultimo dell’evoluzione umana. L'analisi storica di questo progresso dimostra che l'evoluzione della tecnologia segue un processo esponenziale e non lineare come invece si sarebbe portati a pensare. Prima di tutto c’è la legge di Moore (Gordon Moore, cofondatore di Intel con Robert Noyce): “La complessità di un microcircuito, misurata ad esempio tramite il numero di transistori per chip, raddoppia ogni 18 mesi (e quadruplica quindi ogni 3 anni)”.
Nel saggio ‘The Law of Accelerating Returns’, l’informatico Ray Kurzweil propone una generalizzazione di questa legge, che forma la base delle convinzioni comuni sul tema della ‘Singolarità’. Kurzweil estende l’andamento includendo tecnologie molto precedenti ai circuiti integrati ed estendendolo al futuro. Egli crede che la crescita esponenziale della legge di Moore continuerà oltre l'utilizzo dei circuiti integrati, con l'utilizzo di tecnologie che guideranno alla Singolarità. Dunque divide in sei epoche l’evoluzione della terra, dominate ciascuna da scoperte in diversi campi: la prima in quello della Fisica e della Chimica, la seconda in quello della Biologia, la terza in quello delle configurazioni neurali, la quarta in Tecnologia e sviluppo di hardware e software e le ultime due nella fusione dell’intelligenza umana e della tecnologia e nel superamento della prima a favore della seconda. Il processo accelera gradualmente: l’evoluzione delle forme di vita ha richiesto parecchi milioni di anni per il primo passo, ma ora la tecnologia biologicaquot; è diventata troppo lenta rispetto alla tecnologia creata dall'uomo, che utilizza i suoi stessi risultati per andare avanti in maniera estremamente più veloce di quanto non possa fare la natura.
Arriveremo dunque presto al paradosso di un mondo dove saremo noi gli strumenti in mano alle macchine, che faranno di noi carburante come in Matrix? O magari dovremo solo accettare che, come nel recente film Ex Machina, un seducente androide costruito per darci soddisfazione emotiva e sessuale decida in autonomia quale debba essere il suo destino?
Antropologicamente parlando, le apocalissi future che immaginiamo sono proiezioni delle paure e delle angosce del nostro presente. Così come gli scenari post-apocalittici alla Mad Max o The Day After rappresentavano, negli anni ’80, il rischio macabro delle conseguenze di una Guerra tenuta ‘fredda’ troppo a lungo, oggi la perdita di identità e umanità a fronte di un mondo che ci vuole sempre più tecnologizzati e connessi diventa particolarmente significativo anche al cinema e in letteratura. Del resto, sempre con gli occhi puntati allo schermo di un computer, con le mani sempre a contatto di uno smartphone, con le orecchie sempre occupate da una cuffia e appena domani immersi in una virtual sphere che amplifica le nostre percezioni, siamo già dei cyborg. E le macchine, parallelamente, da noi imparano e acquisiscono dati. Una ricerca svolta dal professor Selmer Bringsjord del Rensselaer Polytechnic Institute di New York ha recentemente provato che un robot può raggiungere l’autocoscienza.
Forse gli androidi non sognano ancora pecore elettriche, ma sicuramente noi sogniamo Android. Possibilmente installato sull’ultimo e più accessoriato modello di tablet Samsung.
Di Daniele Massironi, redattore di ScreenWeek
Tanti i cult movie della fantascienza nella storia del cinema, ma per approfondire alcune tematiche e per farle conoscere realmente in modo accessibile a tutti, la tv ha svolto senza dubbio un ruolo fondamentale. Non è di certo un fenomeno recente, considerando che il celebre serial fantasy/sci-fi Doctor Who è iniziato nel lontano 1963 nel Regno Unito, da sempre il paese più fertile in questo campo, mentre il nostro paese ha preferito tenersi alla larga sperimentando molto poco in questo senso e facendo leva sul falso mito che “la fantascienza non piace agli italiani”.
Gli spettatori italiani grazie in ogni caso al teleschermo, e in seguito alle piattaforme satellitari e poi a internet e i servizi di streaming, hanno potuto gustarsi alcuni veri e propri classici negli anni, alcuni dei quali hanno trattato in modo anche molto specifico del tema della singolarità e delle intelligenze artificiali.
Due i filoni principali seguiti, due le tematiche chiave proprie della singolarità tecnologica. Gli androidi con intelligenza artificiale e la capacità di distinguerli dagli umani (o la loro di distinguersi), e la fusione dell’organismo e/o della mente umana con le macchine stesse tramite la cibernetica.
Più che un excursus negli anni, preferisco direttamente proporvi i capisaldi di questo genere, che hanno meglio trattato l’argomento, a partire da quella che è considerata come una delle migliori serie tv mai realizzate: Battestar Galactica (che è su Netflix ora, se volete recuperarlo).
Galactica (Battlestar Galactica) fu una serie televisiva americana prodotta nel 1978 da Glen Larson. In qualche modo fu precursore anche di alcuni meccanismi anche di marketing che rivedremo a breve come nell’imminente Inhumans di ABC, considerando che l’episodio pilota, in tre parti, fu proiettato nelle sale cinematografiche nel luglio 1978, (anche in Italia con il titolo Battaglie nella galassia).
Della serie tv ne venne realizzata una sola stagione, ma è meglio concentrarsi per raggiungere il nostro scopo sul remake della serie tv ideato da Ronald D. Moore, e andato in onda dal 2004 al 2009. Tra i protagonisti della serie hanno grande importanza i Cyloni, robot umanoidi, creazione dell'uomo, senzienti e utilizzati principalmente per i lavori pesanti. Nel serial sono divisi in Centurioni e in Cyloni Umani definiti in maniera dispregiativa anche skinjob (lavori in pelle in italiano). Molto deriva dal mondo di Isaac Asimov e ai suoi cicli letterari, e la figura stessa di Gaius Baltar paragonabile ad alcuni personaggi delle saghe asimoviane, più per l’intelletto che per i valori morali alla sua base.
I cyloni con sembianze umane di Battlestar Galactica che cercano la distruzione dei coloniali, progettati per sembrare del tutto simili agli uomini, sono capaci di mostrare reazioni di odio, amore, paura e tutti quei sentimenti che caratterizzano l'uomo. Nel corso della serie, fino alla stagione conclusiva, si assiste ad una progressiva "umanizzazione" di quelle che inizialmente erano macchine assassine:
destino comune, evidentemente, con un'altra famosa specie "cibernetica" nemica dei viventi, che però invece di distruggere i suoi avversari li "assimila”. Il tutto condito in ogni episodio da politica, filosofia, religione e molto altro. Una serie Tv con una grande densità narrativa e di tematiche, una delle migliori in assoluto per il genere fantascientifico (e non solo).
Ci sono stati negli anni esempi più leggeri di rappresentazioni di intelligenze artificiali nel mondo del piccolo schermo, così come nelle serie tv animate: da Sinergy in Jem al robot Bender di Futurama, per non dimenticarci di Data in Star Trek: The Next Generation, interpretato da Brent Spiner. Forma di vita artificiale progettata per sembrare umana, con un’avanzata forma di intelligenza artificiale e di un cervello positronico (capiremo mai cosa voglia dire?), ha ricoperto nella serie un ruolo per molti aspetti analogo a quello di Spock nella serie classica di Star Trek e rappresenta il membro dell'equipaggio rigidamente condizionato dalla logica e obiettivo osservatore del comportamento umano, di cui è affascinato. Non è un caso sia il personaggio forse più amato della serie con protagonista Patrick Stewart.
Nel corso degli anni è seguita poi una vera e propria lotta tra UK e USA, a colpi di produzioni di altissimo livello. Per anni è stato il Regno Unito a prevalere nella sfida qualitativa, anche grazie a due gioielli dell’epoca recente quali Black Mirror e Humans.
In Black Mirror ogni episodio è focalizzato sulle tecnologie, l'assuefazione ad esse ed i loro effetti collaterali. Vengono immaginate e ricreate diverse situazioni del mondo moderno o futuro in cui una nuova invenzione tecnologica o un'idea paradossale ha in qualche modo destabilizzato la società e i sentimenti umani.
in Torna da Me, episodio con Hayley Atwell e Domhnall Gleeson, si parla di elaborazione del lutto e della capacità di ricreare una sorta di replica della coscienza del defunto amato prelevando le informazioni da tutti i profili social. Caricando il servizio in un corpo di carne sintetica, si passa poi alla creazione di un vero e proprio androide, incapace però di restituire la completezza della persona in tutte le sue sfumature, in tutte le sue lacune e le sue imprecisioni. L’intelligenza artificiale è altro, e l’episodio mostra anche quanto sia difficile raggiungerla: sarà forse questo una sorta di livello intermedio che ci preparerà al suo arrivo?
In Ricordi pericolosi, nello speciale White Christmas, ma anche in Giochi Pericolosiz e Gli Uomini e il Fuoco, è centrale il tema degli impianti cibernetici nell’organismo umano. A seconda dell’episodio, questo è più o meno realistico, ma le tematiche affrontate sono particolarmente intense e creano suggestione proprio a causa dell’immedesimazione
nei confronti dei protagonisti e a causa dei vari twist narrativi che avvengono durante gli episodi, tipici della serie tv. “Il futuro è già qui, anche se non ve ne siete accorti” sembra urlare con grande delicatezza questo capolavoro della nostra contemporaneità.
Accanto a Black Mirror tutta una serie di prodotti sempre di alto livello, come Humans, rifacimento più convincente della serie svedese Real Humans, che analizza gli effetti dell'intelligenza artificiale sulla società dalla prospettiva della normale vita domestica. Vengono chiamati synth, ma non sono ancora androidi con un’intelligenza artificiale. Alcuni umani vogliono neutralizzarli perché spaventati dall'imminente singolarità tecnologica, fatto che anche questo rientra tra le previsioni più realistiche per un futuro non troppo lontano.
Gli USA negli anni hanno provato a sfornare prodotti interessanti sull’argomento, senza mai riuscire a raggiungere vette notevoli. Prodotti come Dollhouse di Joss Whedon, Terminator: The Sarah Connor Chronicles o il recente Extant con il premio Oscar Halle Berry, tra androidi, intelligenze artificiali e singolarità, non sono mai riusciti a far qualcosa che più di una semplice riproposizione di temi già visti e non sono riusciti a realizzarne una rivisitazione di peso.
Questo almeno fino al 2016, anno che verrà ricordato per l’arrivo di Westworld, considerato dalla critica un vero e proprio capolavoro assoluto, e miglior esempio recente di rappresentazione di adroidi e coscienza artificiale.
Tratto dal film realizzato da quel genio di Michael Crichton, uno degli scrittori più influenti per la fantascienza dell’epoca moderna (Jurassic Park, Il terminale uomo, Sfera).
Il film, all’avanguardia negli anni ’70 per tematiche e realizzazione, è stato trasformato da HBO, Jonathan Nolan e Lisa Joy in un “un'oscura odissea sull'alba della coscienza artificiale e sul futuro del peccato", recita la sinossi in modo perfetto. La serie racconta la storia di un avveniristico parco a tema chiamato Westworld, popolato da androidi e creato per consentire ai visitatori (ricchissimi, 40mila dollari al giorno l’ingresso) un'esperienza a tema western realistica e ultra violenta, senza alcuna ripercussione morale e legale.
Il dottor Robert Ford (Hopkins) direttore creativo del parco e capo del team di sviluppo, aggiorna continuamente gli androidi con le cosiddette "reveries" (sogni ad occhi aperti) per renderli sempre più simili agli umani. L'origine umana di questi input tende a prevalere sui comandi impostati dal team, rendendo instabili gli androidi che tentano di prendere il controllo e ribellarsi.
Il raggiungimento della coscienza viene descritto come una sorta di labirinto da percorrere, realizzato a tappe, e dove in quella finale l’androide si trasforma effettivamente in un’intelligenza artificiale vera e propria. Ma cosa li distingue effettivamente dagli uomini? Qual è il confine? Cosa accadrà realmente in futuro quando si arriverà a questo dilemma etico?
Il futuro è più vicino di quanto pensiamo, anche grazie a queste magnifiche serie tv, che spesso hanno dato del filo da torcere sia al cinema che alla letteratura moderna.
Di Marco Lucio Papaleo, redattore di ScreenWeek
La singolarità tecnologica è uno dei temi cardine del cyberpunk: e sebbene di matrice occidentale, questo genere della fantascienza deve molto al Giappone, sia direttamente sia indirettamente. Al di là dell'apporto di numerosi, importanti autori alla tematica (su cui torneremo fra poco) è interessante difatti notare come l'estetica futuristica di tanti mondi più o meno distopici - ma, comunque, ultratecnologici - che hanno plasmato l'immaginario fantascientifico mondiale deve moltissimo al Paese del Sol Levante, per definizione la terra del sincretismo storico, sociale, religioso e culturale. Sincretismo che, come vedremo, risulta un elemento importantissimo nella visione nipponica del rapporto tra l'uomo e la tecnologia. I mondi futuristici di Blade Runner o Atto di Forza (per citarne giusto un paio) sono invasi di luci al neon, kanji, estetica minimalista in un contesto dominato da una tecnologia dall'aspetto contemporaneamente “pulito” e decadente.
Questo perché il cyberpunk è figlio di una certa visione anni '80 che vedeva il Giappone come egemone dominatore economico (e quindi, di riflesso, anche culturale) del mondo intero. Basti vedere Ritorno al Futuro II o l'universo Marvel 2099: si pensava che le zaibatsu, ovvero i giganteschi conglomerati industriali nipponici, avrebbero letteralmente finito per acquistare o inglobare qualunque cosa, in occidente come in oriente. Così non è stato, perché al boom degli anni '80 è seguito un affossante periodo di recessione negli anni '90, e altre nazioni (come la Cina) hanno seguito la scia nipponica. Il solco culturale, tuttavia, è stato indelebile e rimane tutt'oggi, quando in un modo o nell'altro, parlando di androidi, reti neurali e tecnologia avveniristica, il pensiero non può che andare in direzione Tokyo. Chi è stato ad Akihabara sa che l'impatto con la “città elettrica” è straniante ancora oggi, figuriamoci trent'anni fa. Akihabara è il regno dell'elettronica, della fantascienza e dell'animazione.
E l'animazione giapponese è sempre stata, a sua volta foriera della fantascienza: è curioso notare, infatti, che mentre in occidente la sci-fi è soprattutto materia di live action e raramente terreno fertile per il disegno animato, nel Paese del Sol Levante è spesso accaduto il contrario. Viene da interrogarsi sul perché, ma è presto detto: si tratta di un limite, in gran parte, squisitamente “pratico”. I giapponesi sono da sempre maestri nel realizzare, a costi contenuti, animazione ad altissimi livelli tecnico-artistici, mentre non sono quasi mai riusciti a sfondare nella produzione di live action di impatto internazionale: poco male, dato che, per loro, l'animazione ha la stessa “dignità cinematografica” del cinema realizzato con attori in carne e ossa, e non necessariamente qualcosa per un pubblico infantile / giovanile, e quindi può trattare anche le tematiche più complesse.
Tutti i più grandi Maestri dell'Anime e del Manga si sono cimentati col genere fantascientifico, rendendolo fondante dell'industria: da Osamu Tezuka a Rintarō, da Hayao Miyazaki a Go Nagai e Mamoru Oshii, regista della versione animata di Ghost in the Shell, rivoluzionaria e matura opera magna di Masamune Shirow, il cui debutto in live action è imminente.
Particolare interesse ha destato, in questi autori, rappresentare il futuro visto attraverso gli occhi di un'umanità variamente evoluta, sotto forma di organismi modificati in cyborg o di intelligenze riversate in rete. Per non parlare di una vasta antologia di opere, che esplorano le variegate esistenze e problematiche di androidi e robot senzienti.
Il primo vero e proprio anime televisivo, Tetsuwan Atom (Astro Boy, in occidente), nel 1963, vede protagonista un piccolo androide, creato dal “padre” scienziato come sostituto del figlio, deceduto ancora bambino. L'androide, mentre salverà il mondo da minacce di varia entità, ricercherà anche la propria umanità, che sarà inevitabilmente diversa da quella che sarebbe stata quella del bambino su cui è stato plasmato.
Il suo autore, il leggendario Osamu Tezuka, ha continuato a parlare di fantascienza anche in altre opere, rivisitando ad esempio il Metropolis di Fritz Lang, divenuto infine lungometraggio animato nel 2001, per la regia di Rintarō. Di come la singolarità potrà portare le macchine ad aiutare l'uomo o, al contrario, ad avversarlo ne ha parlato in diverse occasioni, l'industria dei manga e anime: un esempio cardine è rappresentato da Shinzo Ningen Kyashan (Kyashan, il ragazzo androide), serie animata del 1973 tra le più amate della scuderia Tatsunoko e trasformata anche in un live action trent'anni più tardi. Le macchine, inizialmente programmate per dare una mano all'umanità in un contesto in cui l'inquinamento la sta condannando all'estinzione, decidono di eradicarla per portare il mondo a un nuovo stadio di evoluzione. Solo Kyashan, un androide creato a partire dalla coscienza e dal corpo di un eroico giovane, combatterà contro l'oppressione robotica. Tutto questo, dieci anni prima di Terminator, e venti abbondanti prima di Matrix. Quello degli androidi, dei cyborg e delle varie ibridazioni è un tema comunque ricorrente e perpetuo: citiamo, tra un'infinità di titoli, Gunnm (Battle Angel Alita) di Yukito Kishiro,
nato come manga e poi sviluppato a più riprese anche in animazione e, prossimamente, in un live action (diretto da Robert Rodriguez a partire da un progetto di James Cameron), con protagonista una androide combattente dal cervello umano, ed Ergo Proxy, serie tv che condivide più di un punto in comune con Blade Runner, a partire dal personaggio di Re-l Mayer, un'ispettrice che indaga sulla ribellione di alcuni androidi rinnegati ribellatisi ai propri padroni.
Il contributo più grande dato alla sci-fi dagli autori giapponesi, tuttavia, si spande su territori più complessi del “semplice” rapporto tra umani e robot, andando a toccare la metafisica e i concetti estremi della singolarità, ovvero anche quei confini che la tecnologia ci potrà far varcare e che non riusciamo neanche a immaginare. In questo, i giapponesi sono “avvantaggiati” per una questione, potremmo dire, culturale. Per il pensiero occidentale, difatti, i robot sono freddi, spersonalizzanti, lontani da noi e raramente visti in una luce positiva. Il pensiero orientale, invece, tende a visualizzare anche gli oggetti inanimati come emanazioni spirituali: la natura è piena di kami, ovvero spiriti divini che possono essere più o meno bene intenzionati a seconda anche della predisposizione degli umani con cui vengono a contatto o da cui hanno origine. Gli artisti e gli artigiani infondono nelle proprie opere parte del loro spirito, e così come le bambole meccaniche karakuri del diciassettesimo secolo erano “vive” non solo per le loro movenze ma per lo spirito con cui erano realizzate dai loro creatori, così può essere anche per i robot. È un elemento cardine dell'animazione robotica, da Mazinga a Neon Genesis Evangelion, passando per Gundam. Il robot è un'appendice di chi lo usa, può essere buono o cattivo, portare la pace o la distruzione.
Lo stesso nome “Mazinga” è un'abile crasi (operazione tipica della linguistica giapponese) che sta ad indicare al contempo una natura divino o demoniaca, a seconda dei casi. All'interno degli Eva la natura umana, teoricamente portata a un livello superiore, si risveglia e diventa bestiale, primordiale. Il cosiddetto “perfezionamento dell'uomo” spinge l'umanità oltre quanto conosciuto, sfidando le stesse leggi dell'uomo e della natura. Tema noto anche nell'altrettanto importante Akira.
In sostanza, quando l'uomo cerca di trascendere la propria natura manipolando la scienza e mutando la propria struttura con la biologia o l'innesto di parti meccaniche, non diventa solo più efficiente a scapito della propria umanità, ma diventa un vero e proprio mostro, come vediamo in tanti esempi, tra cui il Tetsuo di Shinya Tsukamoto, che ricorda per certi versi gli incubi cronenberghiani. Mentre le macchine possono raggiungere la coscienza elevandosi a kami, spiriti. L'unica direzione possibile per evolvere tecnologicamente l'uomo senza soccombere alla barbarie dunque non passa attraverso il “metallo” e la semplice protesi cybernetica, ma attraverso lo spirito. Che questo sia trasferito nel cyberspazio (come negli anime a sfondo videoludico delle serie .hack// e Sword Art Online, così come nei lungometraggi Summer Wars e Avalon) o semplicemente all'interno di una macchina, con l'intelletto e la coscienza umana che alberga in una macchina e l'intelligenza artificiale che si emana al di fuori di essa, entrando in contatto con quella umana.
Un po' come Beast, il mega-computer presente nel manga / anime fantaapocalittico X-1999, in cui la giovane hacker Satsuki ha un rapporto simbiotico con la “bestia”. Spingendoci ai limiti della singolarità, dove potranno arrivare le intelligenze umane e artificiali? Cosa renderà gli umani resi cyborg ancora umani, e cosa renderà i computer “senzienti”? Cosa ci differenzierà? Forse proprio uno “spirito” all'interno di un “guscio”. A Ghost in the Shell, per l'appunto.
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Ghost in the Shell segue le vicende della Sezione 9, un'organizzazione antiterroristica che opera nel Giappone del futuro, specializzata nella risoluzione di crimini informatici e tecnologici. A capo della Sezione 9 c'è l'agente Motoko Kusanagi (Scarlett Johansson), il cui corpo è stato interamente sostituito da protesi artificiali; anche i suoi colleghi sono equipaggiati con impianti cibernetici, ma conservano ancora il loro corpo originale. Al di là della sua componente spettacolare, il manga è caratterizzato da profonde riflessioni esistenziali legate al rapporto tra umanità e tecnologia, e alla progressiva fusione di queste due sfere.
Nel cast figurano anche Michael Pitt, Takeshi Kitano (Daisuke Aramaki), Juliette Binoche (Dr. Ouelet), Pilou Asbæk (Batou) e Kaori Momoi. I membri della Sezione 9 sono interpretati da Chin Han, Danusia Samal, Lasarus Ratuere, Yutaka Izumihara e Tuwanda Manyimo. Il regista è Rupert Sanders (Biancaneve e il Cacciatore), mentre Bill Wheeler (Il fondamentalista riluttante) e Jonathan Herman (Straight Outta Compton) hanno scritto la sceneggiatura.
La produzione di Ghost in the Shell è a cura della Dreamworks. L'uscita italiana è prevista per il 30 marzo 2017.
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