Zero, un supereroe per il 99% – La recensione della serie Netflix

Zero, un supereroe per il 99% – La recensione della serie Netflix

Di Lorenzo Pedrazzi

Dopo Luna nera e Curon, la via di Netflix per le produzioni di genere italiane continua a incespicare fra buone idee e problemi di scrittura, evidenziando una certa difficoltà a uscire da quei territori che il cinema e la televisione nostrani hanno battuto per troppi anni. Zero purtroppo non si sottrae a questa tendenza, ma la delusione è ancora più cocente se pensiamo al carattere innovativo dell’intero progetto, nato come rielaborazione fantastica del libro Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano, uno dei pochi scrittori afrodiscendenti del panorama letterario nazionale. È grazie a lui che la serie offre un punto di vista diverso da qualunque altra produzione televisiva italiana, pur senza evitarne le consuete lacune.

I difensori del Barrio

L’epicentro di Zero è il Barrio, quartiere della periferia milanese – in realtà è la Barona – in cui vive un aspirante fumettista chiamato Omar (Giuseppe Dave Seke). Perseguitato dal ricordo della madre scomparsa, il ragazzo ha un rapporto conflittuale con il padre, ma è dolce e protettivo verso la sorella Awa (Virginia Diop), di pochi anni più giovane. Omar fa il rider tra i grattacieli e i palazzi storici di Milano, ed è proprio durante una consegna che incontra Anna (Beatrice Grannò), studentessa di architettura proveniente da una famiglia agiata. Se ne innamora all’istante, ma il rapporto tra i due viene ostacolato dai problemi che affliggono il Barrio: una banda sta infatti devastando il quartiere per sminuirne la reputazione, mentre una società di costruzioni – la Sirenetta – progetta di cambiare volto alla zona, trasferendo i ceti popolari altrove.

Intanto, Omar fa una scoperta sorprendente: riesce a diventare invisibile quando prova determinate emozioni. Un ragazzo del posto chiamato Sharif (Haroun Fall) è convinto che tale straordinaria capacità possa salvare il quartiere, e accoglie Omar nel suo gruppo di amici, ovvero Momo (Richard Dylan Magon), Sara (Daniela Scattolin) e Inno (Madior Fall). Oltre ad aiutare lo stesso Omar nella gestione dei suoi poteri, dovranno indagare sulla minaccia che grava sul Barrio, più ramificata di quanto sembri.

Il paladino del 99%

La scelta della Barona è già di per sé una dichiarazione programmatica: il quartiere meneghino è infatti un melting pot di grande rilevanza che ospita varie iniziative di aggregazione e intervento sociale, come il Barrio’s (dove si svolgono molte scene di Zero) e il Villaggio Barona. Nella sua ricerca di un consenso generalista, la TV italiana tende a ignorare realtà di questo tipo, preferendo confermare preconcetti vetusti che non tengono conto delle evoluzioni in atto nella nostra società. In tal senso, se realizzare una serie con protagonisti afroitaliani costituisce già una novità, ancora più importante è il modo in cui vengono rappresentati. Viviamo in un paese dove il discorso sull’integrazione – anche riguardo a persone che sono già integrate, perché sono già italiane – non va oltre il solito ammasso di retorica pietista e paternalista, quando non sfocia nel più bieco razzismo (un razzismo strutturale, talmente radicato da essere persino inconsapevole). Zero procede invece in tutt’altra direzione: Omar e i suoi amici sono ritratti in continuità con l’ambiente urbano dove vivono, com’è giusto che sia.

Non è tanto l’alterità il concetto alla base della serie, quanto l’appartenenza. Certo, Omar sa bene che la gente vede in lui un “diverso” per il colore della sua pelle (con tutte le aspettative pregiudizievoli che ne conseguono), ma l’Italia è il suo paese, Milano è la sua città, il Barrio è il suo quartiere. Il percorso formativo che compie nell’arco della stagione lo porta a identificarsi non solo con il quartiere stesso, ma anche con gli amici che ha incontrato lungo la strada, all’insegna di una solidarietà che si estende idealmente al 99% del mondo. Sì, perché Omar è l’eroe del 99%, in lotta contro quell’1% che specula sulla classe lavoratrice e sui distretti popolari. Il vero nemico è la gentrificazione, in un certo senso. Zero mette a confronto la periferia del Barrio con le zone già gentrificate (soprattutto i grattacieli dell’area Garibaldi-Repubblica), restituendo l’immagine di una metropoli che ha moltiplicato i suoi centri e allargato la forbice tra le classi sociali.

È un’idea forse un po’ troppo schematica della città (accompagnata da vedute aeree suggestive ma ripetitive), eppure capace di immergere i nostri eroi in un contesto ben caratterizzato. Al contempo, anche la scelta dell’invisibilità pare una metafora fin troppo elementare, per quanto inevitabile. La capacità di sparire, osservando i dintorni senza essere visto, rievoca lo smarrimento di chi si sente troppo spesso spettatore della vita, e mai protagonista: non a caso, Omar si chiude in camera a disegnare fumetti che trasfigurano la realtà, e dove lui stesso ha un ruolo più attivo. Ma è anche l’emblema di un’invisibilità sociale, il peso di non essere visti dalle istituzioni che ti ignorano (pensiamo alle difficoltà relative alla cittadinanza) o da un mondo del lavoro che ti discrimina. Tutto questo, però, senza il suddetto pietismo, ma con una naturalezza che deriva dall’esperienza.

Lacune e cambiamenti

I risvolti sociali e fantastici si integrano in una narrazione che unisce avventura, crimine, romanticismo e commedia, senza disdegnare i riferimenti a un immaginario più vasto. Una volta tanto, vediamo dei ragazzi italiani che citano la cultura pop e frequentano le fiere di fumetti, consapevoli del valore iconico delle loro scelte stilistiche (Omar indossa un “costume” ricorrente che diventa il suo tratto distintivo, e lo rende immortale disegnandolo sulla carta). Il problema è che i meriti di Zero emergono soprattutto in relazione a un panorama nazionale sconfortante, più che in senso assoluto. Non c’è dubbio che la serie inanelli alcune buone idee: ad esempio, l’effetto dell’invisibilità è ottenuto ribaltando la prospettiva, mostrando Omar e l’ambiente circostante tramite una manipolazione dell’immagine che rimanda ai fumetti; mentre il tenero legame con la sorella genera conseguenze inaspettate, alimentando così la trama orizzontale. Purtroppo, però, è l’esecuzione a suscitare dei dubbi.

Il creatore è Menotti, lo stesso di Lo chiamavano Jeeg Robot, e l’operazione non è molto diversa. Anche qui l’aspetto sovrumano si mimetizza nel contesto italiano, peraltro sempre marginale e suburbano, ma la differenza è che Gabriele Mainetti abbracciava in toto i codici del racconto supereroistico, e inoltre aveva uno sguardo adeguatamente “ruvido”. Zero sceglie invece una fotografia sin troppo levigata e scintillante (del bravissimo Daniele Ciprì), e una regia ben calibrata ma priva di guizzi. La scrittura non aiuta, in questo senso: molti dialoghi suonano artefatti, e le scene chiave emulano goffamente i modelli stranieri, con risultati alquanto leziosi. Certi snodi narrativi, inoltre, sembrano troppo ansiosi di arrivare al punto, senza una costruzione graduale che li giustifichi.

Ad alleviare la situazione c’è un cast fresco e spigliato, composto da attori Neri che finalmente non sono relegati in ruoli stereotipati. In fondo, l’obiettivo primario di Zero è proprio questo: normalizzare la percezione degli italiani afrodiscendenti presso un’opinione pubblica che li vede spesso come corpi estranei. La maggior diffusione di attori, scrittori e registi afroitaliani porterà a una diversificazione degli sguardi, e quindi a una vera emancipazione dell’industria. Per quanto incerto, la serie di Antonio Dikele Distefano e Menotti è un fondamentale primo passo.

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