Non rivedevo Cast Away probabilmente da quando lo vidi al cinema, vent’anni fa. Qualche giorno fa ho deciso di farlo (lo si trova su Prime), spinto dall’immagine del pallone Wilson diffusa in quella famosa fake news sul ricovero di Tom Hanks. Una foto presa da un vecchio filmato, spacciata come attuale dall’equivalente australiano di Lercio. L’associazione, semplice ed efficace, è evidente: se ha superato quattro anni di isolamento su un’isola del Pacifico, Tom Hanks non avrà problemi a superare la quarantena.
Eppure, per una serie di allineamenti cosmici, Cast Away è davvero uno dei film perfetti per descrivere la realtà che stiamo vivendo. Non c’è solo il tema dell’isolamento, ma anche quello della sopravvivenza, dell’andare avanti giorno per giorno senza lasciarsi abbattere dalle circostanze. E poi c’è il fatto che il protagonista, Chuck Noland, è un dipendente della FedEx, coincidenza davvero curiosa, oggi che i servizi di consegne a domicilio sono diventati la norma e persino indispensabili nel momento in cui non ci si può muovere da casa.
Rivisto oggi, Cast Away conferma la sua forte impronta di cinema hollywoodiano classico. È un canovaccio che da sempre ossessiona Robert Zemeckis, che è tornato a batterlo dopo la parentesi sperimentale dei film in motion capture. È, come anche Flight, The Walk e il più classico Forrest Gump, la storia di un individuo che si ritrova a vivere un’esperienza straordinaria. È un concetto molto americano, che nasce da una società fortemente individualista, in cui il singolo può contare solo su se stesso per tirare avanti, e deve forgiare il suo cammino con le proprie forze. Negli Stati Uniti è da sempre così, e i limiti di questa concezione si stanno manifestando proprio adesso con la crisi sanitaria.
Altra cosa che salta agli occhi rivedendo Cast Away adesso: la parte sull’isola è molto più breve di quello che ricordavo. Quando Chuck vi giunge, Zemeckis ci mostra in breve – col più classico dei training montage à la Rocky – come lui impari ad accendere un fuoco e a cavarsela senza i comfort della vita moderna. Poi salta a quattro anni dopo, quando l’ormai smunto e barbuto Chuck (barba e capelli sono veri, Hanks se li fece crescere apposta) mette in atto un piano di fuga, costruendo una zattera grazie a una toilette portatile spinta a riva dalla marea. È la più classica metafora: non puoi sapere cosa ti riserverà il futuro, ma devi essere pronto a cogliere qualsiasi cosa arrivi portata dalla marea.
Chuck, dunque, da bravo americano, si costruisce con le sue mani quel futuro, quella seconda chance per tornare alla vita. Il messaggio finale, riservato a un monologo di Tom Hanks, è che nessuno dovrebbe morire da solo. Metti che Chuck si fosse infortunato, o ammalato. Nessuno avrebbe potuto assisterlo. Dunque un senso della comunità è presente, anche se viene per secondo dopo la forza del singolo, che quella rete sociale deve guadagnarsela col sudore.
Il concetto è particolarmente evidente in una scena-simbolo: Chuck, rimasto solo dopo che gli ospiti della festa di bentornato se ne sono andati dalla sua stanza d’albergo, accende e spegne un accendino. È il confronto definitivo tra l’uomo, che con fatica aveva imparato ad accendersi il fuoco da solo, e la società, che ci vizia in un falso senso di sicurezza. Alla base c’è un’idea prettamente americana, quella dell’essere entitled, di avere il diritto che lo stato ci fornisca qualcosa. Per noi è normale che la sanità sia pubblica, ad esempio, mentre un americano potrebbe accusarci di essere, appunto, entitled, nel senso di viziato. Di essere dei parassiti che chiedono assistenza quando invece dovrebbero guadagnarsi i privilegi.
A un livello più generale, però, è anche una scena che parla a tutti noi, specialmente ora. Perché ci dice che le comodità e le libertà che diamo per scontate potrebbero venirci strappate via da un momento all’altro. E, abituati come siamo a goderne senza farci troppe domande, rimarremmo storditi, a bocca aperta, incapaci di accettare quelle limitazioni. Esattamente come sta accadendo adesso.
Non resta che tirare avanti, letteralmente. Cast Away ci insegna che le cose possono sempre andare un po’ peggio di quello che ci aspettiamo. Il segreto è non abbattersi, continuare a vivere, giorno dopo giorno. Prima o poi tutto finisce, e sta a noi decidere come finirà.