The Boys, o come demistificare i supereroi: le recensione dei primi episodi

The Boys, o come demistificare i supereroi: le recensione dei primi episodi

Di Lorenzo Pedrazzi

Diciamolo chiaramente: non c’è nulla di nuovo nel demistificare i supereroi. Alan Moore e Frank Miller lo hanno già fatto, e persino Mark Millar si è divertito a smitizzarne le gesta in Kick-Ass, giusto per fare un esempio più recente. Lo stesso Garth Ennis, sceneggiatore del fumetto da cui è tratto The Boys, ha messo in ridicolo personaggi come Daredevil, Wolverine e Spider-Man sulle pagine del Punitore, dimostrando il suo scarso amore per i supereroi tradizionali; anzi, per il modo in cui monopolizzano il mercato, come disse lui stesso anni fa.

Insomma, dissacrare i supereroi non ha niente di innovativo, e questo lo sappiamo. Eppure, c’è qualcosa di tremendamente sensato nell’adattare The Boys proprio adesso, in questo specifico momento storico dell’industria culturale. Perché i supereroi stanno realmente dominando il mercato, e la serie di Amazon gioca a rimpiattino con la realtà, proponendoci un mondo che ne riproduce gli stessi meccanismi economico-spettacolari, ma portandoli all’eccesso.

Lo show – già rinnovato per la seconda stagione – sarà disponibile su Prime Video dal 26 luglio, ma ho potuto vederne i primi due episodi grazie all’anteprima del FeST, il Festival delle Serie TV che si svolgerà dal 20 al 22 settembre presso la Triennale di Milano.

Privati e depravati

Come il fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson, la serie è ambientata in un mondo dove i supereroi esistono realmente, e sono oggetto di venerazione in tutto il mondo. Il punto, però, è che la maggior parte di essi agiscono sotto il controllo di Vought American, una potentissima multinazionale che cura gli interessi dei giustizieri mascherati e cerca di piazzarne almeno uno in ogni città, a caro prezzo. Attorno a essi ruota un circo di sponsorizzazioni, merchandising e social media, che lascia trasparire un’immagine pubblica esemplare e rassicurante. Quello che non si vede, però, è molto diverso: i supereroi sono infatti egomaniaci, assetati di fama, narcisisti e spesso depravati, ma le loro azioni vengono sempre coperte dalla Vought con la complicità delle istituzioni.

Nonostante l’aura di rispettabilità che li circonda, tra i più detestabili ci sono i Sette, ovvero il supergruppo composto dagli eroi più potenti della Terra. Questa parodia esplicita della Justice League of America è composta da Patriota (Antony Starr), Abisso (Chace Crawford), Queen Maeve (Dominique McElligott), A-Train (Jessie T. Usher), Black Noir (Nathan Mitchell), Translucent (Alex Hassell) e la neo-arrivata Starlight (Erin Moriarty), che ha passato le selezioni per entrare nella squadra. La vita di questa giovane eroina cambia completamente quando i Sette la accolgono tra le loro fila: Starlight scopre infatti che le donne vengono trattate come oggetti sessuali anche nell’ambito dei supereroi, e inoltre ogni sua azione è gestita dalla Vought, che esercita il controllo assoluto sulla sua immagine pubblica. A capo della sezione Hero Management c’è Madelyn Stillwell (Elisabeth Shue), donna cinica e calcolatrice che vuole far approvare l’inserimento dei supereroi nei programmi della difesa, in modo da garantire ricchi contratti all’azienda.

Mentre questi semidei se la godono dalla cima dei loro grattacieli, al livello del suolo brulicano i comuni esseri umani, che guardano ai supereroi con ammirazione e timore reverenziale. Hughie (Jack Quaid) è il tranquillo impiegato di un negozio di elettronica che pianifica di andare a vivere con la sua ragazza, Robin (Jess Salgueiro), di cui è innamoratissimo. Purtroppo, però, il velocissimo A-Train la travolge davanti ai suoi occhi mentre sta correndo verso un’ignota destinazione, e Robin muore sul colpo, ricoprendo il disperato Hughie con i suoi poteri resti. La Vought non ammetterà mai la responsabilità di A-Train nella morte della donna, e si limita a offrire a Hughie un risarcimento di circa 40 mila dollari, a condizione però che lui non accusi l’eroe e non parli della vicenda. Un rude e misterioso individuo che sostiene di lavorare per l’FBI, Billy Butcher (Karl Urban), contatta Hughie e gli offre un’opportunità per vendicarsi: accettare i soldi, entrare nella sede dei Sette per ricevere le scuse di A-Train, e piazzare una cimice. Billy gli rivela che i supereroi nascondono un mucchio di nefandezze dietro il loro apparente candore, e questa è l’occasione buona per fargliela pagare…

La legge del mercato

L’intento è palese fin dall’inizio del primo episodio. Lo showrunner Eric Kripke, coadiuvato dai produttori Seth Rogen e Evan Goldberg, vede in The Boys un’opportunità per guardare con occhio critico all’industria culturale, pur all’interno di un contesto – Amazon – che fa parte di quel medesimo “sistema”. Ne risulta la satira di un mondo che trasforma i supereroi in brand cross-mediali, rendendoli protagonisti di saghe cinematografiche infinite, spot pubblicitari e innumerevoli oggetti di merchandising, mentre il cinismo delle manovre commerciali si cela dietro un sorriso public-friendly.

Nella logica spietata di The Boys, l’ambiente supereroistico funziona come ogni altra dimensione lavorativa, avvicinandosi soprattutto allo showbiz: è maschilista e disumanizzante, retto soltanto dai meccanismi del profitto e dall’ossessione per l’immagine pubblica. Un’audizione per i Sette non è diversa da un provino per American Idol, e la reazione di Starlight è la stessa di qualunque aspirante popstar. Persino i compromessi necessari ad arrivare in cima – e i laidi ricatti sessuali imposti dal potere – sono uguali. In tal senso, The Boys è demistificante perché ribalta la spontaneità e la naturalezza che dovrebbero essere implicite nelle azioni supereroistiche: i Sette agiscono secondo un programma stabilito dalla Vought, e sempre con i social media manager pronti a testimoniarne le imprese. Non c’è alcuna etica del sacrificio, nessuna dimostrazione di altruismo; solo una messinscena.

In effetti, l’esistenza dei supereroi amplifica il classismo della società americana, già evidente nella disparità economica tra i diversi “ceti” (per non parlare dell’aura inavvicinabile che circonda le celebrità). I supereroi portano questo discorso a un livello estremo, poiché non solo possono contare sui privilegi della fama, ma vantano anche caratteristiche fisiche superiori rispetto all’uomo medio: il loro ego ne esce quindi rafforzato, come si evince da un emblematico discorso di Translucent, quando paragona le persone comuni a innocui «palloncini di carne e sangue». Di fronte a simili ingiustizie, la brutalità di Billy Butcher riassume in sé tutta la frustrazione degli “ultimi”, un desiderio di riscatto che contagia facilmente anche Hughie.

Risate e sangue

L’approccio è ovviamente grottesco e paradossale, anche se l’impressione – basandosi sui primi due episodi – è che la serie viaggi col freno amano leggermente più tirato rispetto al fumetto. Manca anche qualche guizzo in sede di montaggio e regia, nonostante Dan Trachtenberg (lo stesso di 10 Cloverfield Lane) confezioni la premiere con indubbia professionalità, valorizzando i momenti più spettacolari pur senza un budget da blockbuster.

L’esito, nel complesso, è bizzarro e divertente, con un gusto parossistico – splatter compreso – che attinge direttamente dagli albi di Ennis e Robertson. Le prime due puntate non mostrano ancora i Boys al completo – oltre a Billy e Hughie, c’è solo il Francese (Tomer Capon) – ma riescono comunque a mettere in luce le dinamiche dello show, dove l’ingegno e la temerità possono tener testa ai superpoteri. Il carisma di Karl Urban e l’inquietante bravura di Antony Starr fanno il resto, confermando il potenziale d’intrattenimento della serie.

Nel panorama sempre più affollato di show supereroistici, The Boys può sicuramente offrire un’alternativa insolita e surreale.

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