Fleabag, un addio formidabile: la recensione della stagione 2

Fleabag, un addio formidabile: la recensione della stagione 2

Di Lorenzo Pedrazzi

Attenzione: contiene spoiler

La malinconia, a pensarci bene, implica un certo grado di maturità: è uno stato d’animo che sottintende una grande coscienza di sé, figlio di riflessioni introspettive che spesso si alimentano da sole, sfociando persino nell’autocompiacimento. La prima stagione di Fleabag era amarissima, tagliente, schietta, ma non propriamente malinconica, mentre la seconda adotta un’inquietudine più sottile, che raggiunge l’apice nell’epilogo: ne percepiamo la sintesi quando l’eroina di Phoebe Waller-Bridge saluta tutti e prende la sua strada, allontanandosi nella notte dopo una dolorosa confessione d’amore. La malinconia è tutta lì, nel dialogo sincero e tormentato tra due spiriti affini, ma separati dalle scelte di vita. Maturità significa anche riconoscere simili ostacoli, accettarli ed essere disposti a procedere oltre.

Questa premessa serve a chiarire che i nuovi episodi di Fleabag non sono una mera continuazione delle puntate precedenti, bensì un’evoluzione del soggetto iniziale e dei personaggi che lo animano. È passato un anno dagli eventi della prima stagione, e la protagonista senza nome sta cercando di rimettersi in carreggiata: si astiene dal sesso compulsivo, gestisce con successo il suo caffè, e cerca di riallacciare i rapporti con la sorella Claire, proprio quando il padre sta per risposarsi con l’insopportabile matrigna (Olivia Colman). Affascinata dall’insolito prete che celebrerà lo sposalizio, Fleabag comincia a frequentarne la chiesa, mettendo alla prova i suoi istinti e quelli del sacerdote. Intanto, suo cognato Martin continua a farle la guerra, mentre Claire è attratta da un collega finlandese. La girandola di imbarazzi e inadeguatezze che deriva da questo intreccio – per quanto tipica della commedia britannica – reca la firma inconfondibile della sua autrice, talento cristallino di scrittura, arguzia e tempi comici, come si evince già dal fenomenale primo episodio.

Fleabag

Con le sue pause metanarrarive, Phoebe Waller-Bridge fa da tramite tra il pubblico e l’opera, disfando le regole non solo in termini di “genere” (dramma e commedia si alternano senza soluzione di continuità), ma anche nel linguaggio stesso del mezzo. Passando dal teatro – dove Fleabag nasce come monologo – alla televisione, l’autrice trova una formula che le permette di mantenere l’effetto originario, quello di una confessione davanti a un pubblico: la sua eroina ha infatti il pregio di “esserci” e “non esserci” allo stesso tempo, sfuggendo all’hic et nunc della trama per comunicarci uno sguardo, una brevissima frase o un’impressione che rompe la quarta parete; in tal modo, Phoebe diventa sia la protagonista sia la narratrice della storia, ma senza l’invadenza di una voce extradiegetica. L’unico ad accorgersi di queste fugaci eclissi è il prete, sua anima gemella, e c’è qualcosa di scioccante nel vederlo girarsi verso di noi per guardare in macchina: si avverte l’impressione di essere stati scoperti, come se fosse una violazione del nostro rapporto esclusivo con la protagonista. È sufficiente questa trovata per cogliere la genialità di Fleabag, e in particolare di una seconda stagione che parte dall’individuale per farsi universale.

«I sometimes worry I wouldn’t be such a feminist if I had bigger tits» dice la protagonista nel quarto episodio, dimostrando un’onestà intellettuale che – unita all’autoironia – dà voce ai dubbi interiori di ognuno di noi, indipendentemente dal fatto che si parli di femminismo o altre posizioni. Certo, Fleabag è una serie meravigliosamente, orgogliosamente femminista (lo è già nel modo in cui ritrae una protagonista sagace, sporca e fallibile), ma è anche uno show capace di interrogarsi sul labile confine tra idealismo e individualismo, tra integrità e ipocrisia. Non è la dittatura del politically correct a guidare la scrittura di Phoebe Waller-Bridge, bensì un impegno furente e sincero che guarda alla realtà, senza menzogne o illusioni. Anche per questa ragione, il finale non può offrirci soluzioni definitive: Fleabag non risolve tutti i suoi problemi, non festeggia l’idillio con l’amore della sua vita, né addolcisce il rapporto passivo-aggressivo con la matrigna; può solo congedarsi con un cenno della mano, chiedendoci di smettere di seguirla. La vita è soltanto sua, non ha più bisogno di un pubblico per essere vissuta. Continuerà a sbagliare, a creare imbarazzi e incomprensioni, ma lo farà solo per se stessa.

Così, Phoebe Waller-Bridge chiude un capitolo fondamentale della sua carriera, dal quale esce più forte, più matura e più completa. Malinconicamente, ma senza esitazioni.

Fleabag

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