Jordan Peele: il profeta dell’orrore contemporaneo

Jordan Peele: il profeta dell’orrore contemporaneo

Di Lorenzo Pedrazzi

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Fateci caso: spesso gli umoristi celano un lato ombroso che li rende inquietanti, ambigui, talvolta spietati. Sarà che il fool è storicamente la voce della verità, l’unico autorizzato a schernire il potere e le sue maschere; o forse è per la sua disposizione a vedere il grottesco anche alle situazioni tragiche, usando l’ironia e il dileggio per generare consapevolezza nel pubblico. Di conseguenza, non è così assurdo che un comico possa diventare un valido regista dell’orrore, o quantomeno cimentarsi in progetti più cupi e ferini rispetto alla commedia tradizionale. È ciò che ha fatto Woody Allen con Match Point e Cassandra’s Dream, giusto per citare un nome clamoroso.

D’altra parte, i comici migliori sono quelli che sanno decifrare la natura umana, di cui conoscono gli anfratti più oscuri e scioccanti: un discorso che vale anche per gli autori horror, a dimostrazione di quanto sia labile il confine tra un grido e una risata. Jordan Peele può definirsi il prodotto di queste due forze apparentemente contrapposte, un talento cristallino che sa passare da un registro all’altro senza soluzione di continuità. Membro di un duo comico non particolarmente noto in Italia – Key & Peele – il cineasta newyorkese ha sorpreso tutti nel 2017 con il suo primo film da regista, quel Get Out che in seguito avrebbe vinto l’Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale: nessun afroamericano era mai stato premiato in questa categoria prima di lui, segno che Peele era “destinato” a fare la Storia fin dagli albori del suo percorso autoriale.

Sì, perché nel suo caso si può davvero parlare di autorialità, nonostante abbia scritto e diretto solo due film. Il destino, però, non c’entra: se Jordan Peele si sta imponendo come una delle voci più incisive dell’horror contemporaneo, è solo per merito delle sue doti artistiche, unite a una visione dei generi popolari che sta diventando sempre più rara nel cinema di oggi (soprattutto a Hollywood).

Jordan Peele
Jordan Peele sul set di Get Out

Scappa!

C’è un dettaglio da tenere a mente: quando citiamo Jordan Peele, parliamo di un movie geek con tutti i crismi, appassionatissimo di film horror ma dotato di una cultura pop a trecentosessanta gradi. È anche per questo che, nel 2013, il sodale Keegan-Michael Key decide di presentargli Sean McKittrick, produttore californiano che lavora spesso col cinema di genere. Nel suo curriculum c’è persino Donnie Darko, quindi non si tratta certo di un colletto bianco che ha paura di rischiare… e infatti, quando Peele gli espone la sua idea per Get Out, McKittrick rimane sbalordito dalla freschezza del soggetto, e lo incarica subito di scrivere la sceneggiatura. In questo momento della sua vita – a 34 anni – Peele è già un comedian di successo, ma non immagina che qualcuno voglia dar retta ai suoi incubi orrorifici. L’industria culturale ha la pessima abitudine di “tipizzarti” in ruoli consolidati, e non è semplice uscire dal seminato per avventurarsi in altri territori, o altri generi. In fondo, la commedia è il mondo in cui Jordan ha vissuto fin dai tempi dell’università, quando lasciò il Sarah Lawrence College per formare un duo comico con la sua compagna di stanza, Rebecca Drysdale, prima di esibirsi nel gruppo Boom Chicago e nella serie Mad TV. È un marchio, agli occhi dello showbiz. Ciononostante, McKittrick scorge in lui l’entusiasmo di un talento appassionato, e gli offre l’opportunità che stravolge la sua carriera.

Torniamo così alle sopracitate assonanze tra horror e commedia, due generi che hanno molto in comune per Jordan Peele: entrambi sono infatti basati sul ritmo e sulle rivelazioni, come dichiarerà lui stesso a Forbes. Non a caso, Get Out trae vagamente ispirazione da La fabbrica delle mogli di Bryan Forbes, film che sviluppa una trama spaventosa da premesse satiriche. In effetti, Peele immerge subito il suo protagonista – interpretato da Daniel Kaluuya – in un contesto straniante: invitato a trascorrere il fine settimana dai ricchi genitori della sua fidanzata bianca, Chris Washington si ritrova circondato da un’iconografia schiavista (la grande magione, la servitù nera, il cotone), mentre il padre della ragazza si professa grande ammiratore della cultura afroamericana e sostenitore di Obama. Peele costringe quindi lo spettatore a provare un senso di minaccia costante che per i neri americani è semplicemente la norma, quell’impressione di essere perennemente braccati, osservati e giudicati solo per la propria etnia. Così facendo, il cineasta newyorkese costruisce una brillante metafora della discriminazione moderna: un fenomeno meno esplicito e consapevole rispetto al passato, poiché la maggioranza bianca ne ha interiorizzato i “dogmi” come se fossero naturali. Jordan, infatti, sposta l’attenzione sul sottile razzismo dei progressisti liberal, il cui paternalismo è ben diverso dall’aggressività dei suprematisti bianchi, ma non meno dannoso. Al centro della trama non troviamo un illusorio complesso di superiorità, bensì l’invidia che si nasconde dietro l’accondiscendenza dei WASP, e la frustrazione di un confronto – soprattutto fisico – da cui escono perdenti. Ne scaturisce la folle idea di sottrarre ai neri il loro corpo, per occuparlo con la propria coscienza: un attacco alla dimensione più intima della natura umana, l’utopia del carnefice che annulla l’interiorità della sua vittima.

Jordan Peele
Una scena di Get Out

Jordan Peele inaugura così la sua concezione di horror ipertestuale, dove ogni elemento sullo schermo rimanda sempre a qualcos’altro, fino a costruire una fitta rete di reminiscenze culturali. A tal proposito, non sorprende che lo Standard Black English diventi la chiave per decifrare l’ambiguità della situazione, quando Chris si rivolge alla governante utilizzando lo slang degli afroamericani, ma lei non è in grado di comprenderlo: l’unico linguaggio che può capire è lo Standard Written English del ceto dominante, quel “dialetto dell’istruzione, dell’intelligenza, del potere e del prestigio” di cui parlava David Foster Wallace in Autorità e uso della lingua. Nessun altro idioma è ammesso tra i potenti, ma estirpare la lingua di un’etnia – sembra dirci il regista – equivale a soffocarne l’identità culturale. Si tratta di una strategia subdola ed efficace, perpetrata dalla maggioranza bianca per “addomesticare” le minoranze nelle loro aspirazioni di inclusione sociale: gli afroamericani e gli ispanici sono una forza lavoro indispensabile (James Baldwin lo definisce cheap labour nel documentario I Am Not Your Negro), e quindi la classe dirigente non può farne a meno. Per lo spettatore bianco non ci sono scappatoie, non ci sono assoluzioni; può soltanto prendere coscienza del problema e contribuire al ripensamento dei valori, accettando al contempo di non poter essere sempre il perno della narrazione.

Insomma, Peele confeziona un horror smaccatamente politico dove i codici del genere diventano strumenti nelle mani dell’autore, più che il fine ultimo del racconto. Per questa ragione, preferisce lavorare sulle attese, sulle atmosfere, sui primi piani che evidenziano lo spessore grottesco delle mimiche facciali: nonostante la produzione sia curata da Blumhouse, i jump scare sono trascurabili, e la regia di Peele privilegia l’inquietudine psicologica che traspare dalle inquadrature. Il pubblico si dimostra molto sensibile nei confronti del suo approccio all’horror, e lo premia con un incasso di 255.5 milioni di dollari, contro un budget di soli 4.5 milioni: l’era di Jordan Peele è ufficialmente iniziata.

Jordan Peele
Jordan Peele sul set di Noi

Parliamo di Noi

Al di là dell’Oscar e del successo commerciale, Get Out iscrive il nome di Jordan sulla mappa dei dibattiti politico-sociali: il suo film trascende le sale cinematografiche per unirsi a un dialogo vibrante tra la cultura pop e le problematiche razziali, di cui fanno parte – nello stesso periodo – anche serie come American Crime Story e Luke Cage, oltre a film come Straight Outta Compton, Moonlight, Mudbound, Detroit e il sopracitato I’m Not Your Negro. Ormai, da Peele ci si aspetta una convergenza tra impegno ed entertainment che diventa ben presto il fulcro della sua poetica. Un ulteriore esempio in tal senso è la serie Weird City, da lui creata insieme a Charlie Sanders per YouTube Premium: ambientata in una città del futuro, è una satira fantascientifica che mette alla berlina le divisioni economiche del nostro presente, sfruttando un contesto parossistico per agevolare il pensiero critico.

Nel frattempo, l’exploit di Get Out concede a Jordan Peele una libertà insperata, e questo significa che può continuare ad alimentare la sua personalissima visione dei generi. Stavolta, però, decide di abbracciare l’horror in modo ancora più palese, circondato da grandi aspettative e da un notevole livello di segretezza. Eppure, la pressione dei fan e della critica non sembra avere alcun effetto su di lui, nonostante il compito sia piuttosto arduo: parafrasando Caparezza, il secondo film è sempre il più difficile nella carriera di un regista, e molti colleghi hanno già fallito l’impresa. Noi – questo il titolo del progetto – diventa quindi la “prova del nove” per le sue ambizioni d’autore, e Peele la supera in scioltezza perché tiene fede alla sua idea di cinema, senza cedimenti né compromessi. Il suo horror ipertestuale esplode in una miriade di suggestioni e stratificazioni, fin dall’incipit che mostra lo spot di Hands Across America, evento benefico del 1986 in cui si coagulano le contraddizioni sociali di un paese diviso. La scelta del Doppelgänger come catalizzatore della minaccia è emblematica: presagio di morte in diverse culture, il “doppio” è un riflesso distorto del sé, e quindi il simbolo ideale di un’America a due facce, dove milioni di emarginati non ricevono nemmeno gli scarti del sogno americano. La lotta di classe equivale a guardarsi allo specchio, e scoprire che l’immagine ribaltata è più vera del vero.

Jordan Peele
Una scena di Noi

La protagonista di Noi è Adelaide (Lupita Nyong’o), giovane donna che si reca in vacanza a Santa Cruz con marito e due figli, salvo ritrovarsi perseguitata dai Doppelgänger della sua famiglia: individui vestiti di rosso, armati di forbici dorate, che emergono dal sottosuolo e pretendono quel riconoscimento che è stato loro negato. Inizialmente Peele ripropone i tòpoi del genere home invasion, ma li abbandona in fretta per imboccare una deriva apocalittica che valorizza l’universalità della trama. Dal canto loro, i “doppi” sono un concentrato di perturbante freudiano, divisi tra fattezze riconoscibili e dettagli stranianti, poiché riportano sul viso i segni della follia e della violenza: si esprimono solo per grugniti, hanno sguardi fissi e movimenti meccanici, sorrisi maniacali e comportamenti disumani. Imbarbariti dall’esclusione sociale, non possono far altro che imitare goffamente le abitudini delle loro controparti, adottando manierismi artificiosi e caricaturali.

Jordan Peele parla lo stesso linguaggio del suo pubblico, ne condivide l’immaginario, e affastella il film di riferimenti che suggeriscono molteplici letture. Da Shining a Lo squalo, passando per Ragazzi perduti e gli N.W.A., Noi è ricco di citazioni che non sono un mero vezzo post-moderno, ma rappresentano il mondo stesso dell’autore, dove lui vive e respira tutti i giorni. Nulla è casuale, ogni elemento rimanda a qualcos’altro: gli abiti dei Doppelgänger ricordano le tute degli operai metalmeccanici, il colore rosso e il singolo guanto citano Michael Jackson, simbolo di un tormentato dualismo (pubblico e interiore) che per il regista è alla base dell’identità americana. Ritorna inoltre lo spettro dello schiavismo, evocato fin dal cartello iniziale: quando Peele menziona i tunnel che si estendono nel sottosuolo del paese, viene subito in mente la cosiddetta Underground Railroad, un sistema di rifugi e itinerari percorsi dagli schiavi per fuggire negli stati liberi, già al centro de La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead. Ancora una volta, l’horror si parcellizza in numerose allusioni socio-culturali che favoriscono una lettura inedita della realtà.

Sotto questo punto di vista, Jordan Peele è forse il principale erede dell’horror politico di George Romero, filtrato però attraverso uno sguardo personale che dà voce alle minoranze oppresse. Non trascura i meccanismi del genere, ma li ripropone con amore incondizionato e grande consapevolezza, alternandoli a una sagacia umoristica che rende ancor più sfumate le distinzioni tra orrore e commedia. Perché, in fondo, affrontare noi stessi equivale anche a riderci addosso.

Jordan Peele
Una scena di Noi

La quinta dimensione

Anche stavolta il successo commerciale è immediato, ma Peele ha già altre avventure da inseguire, non necessariamente in questa dimensione. CBS All Access gli ha infatti affidato le redini di The Twilight Zone, revival della leggendaria serie antologica nota in Italia come Ai confini della realtà. Oltre che produttore esecutivo, Jordan è anche presentatore, proprio come Rod Serling nello show originale: un ruolo d’indubbio prestigio, che legittima la sua posizione nell’immaginario collettivo. The Twilight Zone ha sempre utilizzato il fantastico per mettere l’individuo comune di fronte all’impossibile, esplorandone la condizione umana, gli stati emotivi e psicologici, all’insegna di quella medesima stratificazione di senso che caratterizza i film del regista newyorkese; insomma, non poteva esserci una serie più adatta alla sua sensibilità.

Per sintetizzarne la poetica, basta citare le parole che Jordan Peele ha pronunciato al Paleyfest durante la presentazione della serie: «If you can offer people escapism and talk to them at the same time, you get the best of both worlds». Un intento davvero nobile, non c’è che dire.

Jordan Peele
«When truth is not the truth, what dimension are you even in?»

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